La libertà di scelta nel settore educativo è uno dei cavalli di battaglia di Formigoni. Il quale stanzia 50 milioni in buoni scuola per favorirla, venendo incontro – tra le altre – alle richieste dell’Associazione Genitori Scuole Cattoliche (A.Ge.S.C.), che tanto male economicamente non deve stare: continua a stampare opuscoli e ideare studi per dimostrare la bislacca ipotesi che le scuole paritarie sono chiara fonte di risparmio per lo Stato.
Omettendo che tale risparmio costituisce un aggravio per il cittadino. E che non tutti hanno la disponibilità di sostenerlo. E non tutti hanno la volontà di sottrarre i figli alla cultura del pluralismo, del libero pensiero, del pensiero divergente, che certamente, pur se non sempre garantiti, troverebbero più naturalmente espressione nella scuola dello Stato. Bazzecole, dunque: parlo solo di diritti e di stato sociale. Profumo auspica un programma ampio, che “superi gli steccati tra scuola statale e non, perché concorrono entrambe al bene comune”. Tali steccati, oltre a quei piccoli dettagli di cui si diceva, significano laicità, libertà di insegnamento, inclusione. Conoscete la quota di alunni disabili nelle paritarie? Lo 0,8% dell’intera popolazione, contro il 2,2% della statale. Alla faccia della carità cristiana, visto che le scuole cattoliche in Italia sono 9371: i 2/3 delle scuole paritarie.
Il decreto sulle liberalizzazioni da qualche giorno è legge. Le scuole paritarie, comprese quelle cattoliche, dovranno pagare la tassa sui fabbricati, l’ex Ici, ora Imu. Ai tempi della proposta la levata di scudi fu veemente, al di sopra di ogni ragionevole previsione, tanto che Monti ha dovuto precisare: “le scuole che operano con modalità non commerciali possono usufruire dell’esenzione”, scatenando un’entusiasta – e trasversale – ondata di consensi, anche tra i politici. I requisiti sono quelli già definiti dalla circolare 2/2009 del Ministero dell’Economia: attività scolastica “paritaria rispetto a quella statale”; accettazione degli alunni senza discriminazioni; avanzi reinvestiti in attività didattiche. Basta un giro in Rete per cogliere i rocamboleschi e allarmati salti mortali dei difensori delle scuole paritarie cattoliche (si parla di “servizio pubblico svolto dalle scuole paritarie, che garantiscono allo Stato un risparmio annuo di circa 6 mld di euro”, dal sito FOE, Compagnia delle Opere) per affermare il possesso del requisito “senza fini di lucro”, sancito dalla norma. Requisiti che – peraltro – sono controllabili solo dagli ispettori ministeriali, il cui numero è assolutamente irrisorio a fronte di quasi 14mila scuole paritarie. E allora: largo all’autocertificazione.
Non sono mancate divertenti stoccate tra paritarie confessionali e paritarie laiche: per questa volta la guerra (per altro non tra poveri) non riguarda protagonisti della scuola dello Stato. Sepiacci, per esempio, presidente dell’Associazione Nazionale Istituti non Statali di Educazione ed Istruzione, ha dichiarato senza mezzi termini: “Se il governo vuol fare un favore alle scuole cattoliche lo dica chiaro e tondo. Vorrei però ricordare che la Corte di Cassazione ha stabilito che l’attività scolastica, ancorché svolta dietro corrispettivo, è un’attività commerciale”. In Italia ci sono quasi 8mila istituti scolastici cattolici, la maggior parte (più di 6mila) scuole dell’infanzia; il resto è equamente diviso tra primaria e secondaria. Lo scorso anno sono state finanziate dallo Stato per un ammontare di 496 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti i contributi delle amministrazioni locali. I finanziamenti alla scuola paritaria sono rimasti sostanzialmente inalterati negli anni (non ancora conclusi, a quanto pare) della mannaia che si è invece abbattuta sulla scuola statale, che nel triennio 2008-11 ha subito il taglio di 140mila posti di lavoro. Ai finanziamenti per il funzionamento degli istituti va aggiunta la clamorosa anomalia italiana: è lo Stato a pagare i circa 26mila insegnanti di religione cattolica (materia non obbligatoria), nonostante essi siano reclutati (e rimossi) dalla Curia.
Il Comitato Scuola e Costituzione osserva: “le scuole cattoliche non hanno mai pagato l’Ici, da quando fu istituita, dal 1992. Un privilegio che è costato all’Italia l’apertura di una procedura di infrazione delle norme sulla libera concorrenza”. Il dubbio è che questa situazione non si sani. La scarsa possibilità di controllo e i preventivati tentativi di sfuggire al fisco, inserendo l’immobile nel patrimonio della congregazione religiosa di riferimento o passando la proprietà ad una cooperativa creata per l’occasione o ad una Onlus, fanno pensare – assieme alle resistenze insistite dei “politici” (particolarmente vibrate, tra le altre, quelle di Lupi, Pdl, e Casini, Udc) – che nulla sia destinato a cambiare.
Marina Boscaino