Raramente la pratica dell’economia, la proliferazione di oggetti e la loro messa in vendita, sono stati associati a una produzione e a una circolazione altrettanto prolifica di un pensiero o di una teoria che dell’uso e dello scambio spiegasse oltre gli scopi anche le procedure, i metodi e le ragioni. Per secoli l’economia, anche la più minuziosamente regolamentata - ad esempio l’economia feudale - ha camminato da sola, senza “spiegarsi” nemmeno a se stessa.
Per avere un’idea di questo attivo non-pensiero basti ricordare i tempi lunghissimi del lavoro degli schiavi. Lo schiavismo del mondo classico, con la successiva variante dei servi della gleba durata in Russia fino al 1861, è stato il fondamentale input della produzione e della circolazione della ricchezza (fino allora prevalentemente agricola), ma ha suscitato soltanto poche e prudenti riflessioni filosofiche o lamentose consolazioni religiose. E in quest’ultimo caso anche con molti riguardi nei confronti del sistema sociale contenitore della schiavitù. Bisognerà arrivare all’Illuminismo per avere una esatta percezione del problema poiché, di quell’Illuminismo che accompagna in Europa la comparsa degli “operai”, cioè del lavoro salariato, e il declino economico del lavoro gratuito degli schiavi.
Anche tra i “rivoluzionari” industriali vi era una scarsa educazione teorico-economica nei confronti di quanto stava accadendo. La nascita del pensiero economico è dunque una derivazione, la conseguenza di un fatto: mentre il pensiero progrediva sempre più, l’ignoranza di molti produttori (soprattutto banchieri e finanzieri) restava invincibile. Anzi, alla luce di quanto accade, lo è ancora. Confermando così un poco noto giudizio di John Kenneth Galbraith, che ancora in anni recenti metteva in guardia dall’imbecillità dei capitalisti. Imbecillità pericolosa, visibile a occhio nudo, che fa dire all’economista Jeffrey D. Sachs (intervistato da Federico Rampini su La Repubblica del 4 luglio): «Ovunque vediamo un’epidemia di comportamenti criminali e corrotti ai vertici del capitalismo. Gli scandali bancari non sono delle eccezioni né degli errori, sono il frutto di frodi sistemiche, di una avidità e di una arroganza sempre più diffuse. Anche in Europa ormai le banche contano più dei governi. Nel mondo s’impongono metodi cinici alle Rupert Murdoch». E poco prima aveva svelato: «In venticinque anni di docenza universitaria ho visto un peggioramento etico anche nelle grandi Facoltà di élite degli Stati Uniti: il potere delle grandi imprese ha fiaccato il senso etico tra molti professori».
Pensavo a questo sfogliando il libro di una giornalista americana, Sylvia Nasar, per anni corrispondente economica del New York Times. Il libro, apparso lo scorso anno, ora si può (e forse si deve) leggere nella traduzione italiana (L’immaginazione economica. I geni che hanno creato l’economia moderna e hanno cambiatolastoriadelmondo, Garzanti, traduzione di Stefania Cherchi, pagg. 613, euro 30). In verità il sottotitolo originale è meno pomposo di quello italiano (The Story of Economic Genius) e il titolo (GrandPursuit) allude a un “inseguimento” a una “caccia” più che a una “immaginazione”. Ma è pur vero che l’immaginazione e la fantasia nel capire in quale mondo si era entrati non mancarono né a Marx e Engels (con loro si apre il volume) né ad altri economisti e studiosi dell’età industriale dall’Ottocento fino ai nostri tempi (non solo Alfred Marshall e Keynes, ma Paul Samuelson, Joan Robinson, Galbraith, Gunnar Myrdal, Friedrick von Hayek – autore nel 1944 de Laviadellaschiavitù– Amartya Sen e tanti altri. Ora aggiungerei proprio l’ultimo lavoro di Sachs, Il prezzo della civiltà).
In fondo, le motivazioni di questo e dell’altro precedente e straordinario libro della Nasar A Beautiful Mind, è di “cacciare” appunto dall’ombra e di mettere in grande evidenza il problema teorico massimo del capitalismo al culmine del successo. Problema nato dall’osservazione di un destino di miseria e di ingiustizie e contemporaneamente nell’immaginare un diverso futuro dell’umanità. Non era necessario essere anticapitalisti per vedere già nell’Ottocento che idee diverse da quelle puramente liberistiche «si potessero usare per promuovere società caratterizzate dalla libertà individuale e dall’abbondanza invece che dalla rovina morale e materiale». Riflettendo un momento, tutto il volume di Sylvia Nasar, che è un vivacissimo insieme di narrazioni, di racconti di vita dei protagonisti, di riscontri storici, di azioni politiche, di scelte di governo in pace e in guerra, di curiosità intellettuali e di forti sentimenti individuali, ruota intorno ad una visione direi “idealistica” che in questo caso corrisponde alla storia vera, cioè non ideologica ma critica del capitalismo americano ed europeo. Nel senso che quella che Nasar chiama “l’intelligenza economica” della realtà capitalistica è stata, lei scrive, «molto più importante ai fini del successo di quanto non fossero il territorio, la popolazione, le risorse naturali o la leadership tecnocratica. Le idee sono importanti. Anzi, per dirla con una famosa frase pronunciata da Keynes durante la Grande Crisi (del 1929), “il mondo è governato quasi solo da esse”».
Una economia di soli fatti porta in definitiva al peggio non al meglio. L’idealismo in questo caso ha una ragione produttiva. Lo ha dimostrato Marx, apparentemente non idealista, ma lo ha confermato appunto Keynes convinto che “le idee economiche avessero trasformato il mondo più del motore a vapore”. Per questo è necessario immaginare il futuro, pensarlo prima che i suoi rudi o corrotti costruttori lo distruggano in nome del loro sedicente progresso materiale e della loro sedicente civiltà del benessere.