di Marina Boscaino e Marco Guastavigna - 5 luglio 2012
20 giugno 2012, 8.30 del mattino. Un gruppo di studenti, qualche presidente di commissione, alcuni commissari d’esame e diversi membri del personale di segreteria sono raccolti in uno stanzone già surriscaldato a quell’ora dalla malefica sinergia tra temperatura esterna e numerosi computer accesi.
Il lieto evento, atteso con trepidazione, è l’arrivo, sulla casella postale del referente della scuola, della “chiave pubblica” necessaria – insieme alla “chiave privata”, già pervenuta all’istituto, e stampata su un foglio di carta che poi è stato piegato, pinzato e racchiuso in una busta sigillata per essere consegnato a ciascun presidente – per decrittare le tracce della prima prova (il “tema” di Italiano).
I minuti passano e sulla mail non arriva niente. La tensione cresce, insieme al sudore. L’ansia connaturata alla celebrazione dell’esame di Stato (paura di sbagliare, operazioni che spesso si prolungano in misura insopportabile, lo spettro del ricorso, sempre in agguato) e la prospettiva del flop di ciò che il ministro ha qualche giorno prima definito in modo quantomeno enfatico (“Attraverso l’operazione delle tracce online chiudiamo il Millennio precedente”) terrorizzano gli adulti presenti, mentre divertono i digital natives sorteggiati a testimoniare la legittimità dell’operazione, sulle cui labbra comincia a comparire qualche sorrisetto (2.0, naturalmente).
Ma ecco che uno dei presidenti prorompe in un grido liberatorio: “Ce l’ho! Eccola”. E porge al tecnico della scuola il proprio iPhone, con il quale ha raggiunto la “segretissima” pagina 101 di Televideo, sulla quale compare l’agognata stringa. Tutto ora funziona: i compiti vengono sbloccati e stampati nel numero di copie necessario. Il giorno dopo, in occasione della seconda prova, per la quale va ripetuta la medesima procedura, tutti i presenti dotati di smartphone hanno scaricato l’applicazione che consente di sfogliare le pagine del servizio di informazioni della Rai: la serenità regna assoluta.
Questo aneddoto (assolutamente autentico) è sintomatico di come la scuola “reale” abbia affrontato (ma ci verrebbe da dire subìto) l’innovazione della comunicazione per via digitale in uno degli snodi cruciali del suo percorso didattico e amministrativo. Già il 18 giugno, peraltro, giorno in cui si sono riunite preliminarmente le commissioni di esame, si era registrato il crash dei servizi approntati dal ministero per supportare su Internet la gestione di dati, punteggi e verbali. Tutti coloro che avevano provato ad avviare “Commissione web”, infatti, avevano dovuto constatare che l’applicazione non era disponibile. Nei giorni successivi essa ha cominciato a funzionare, ma ha continuato a generare dubbi e perplessità. Il ministero aveva organizzato una struttura di supporto, con tanto di numero verde; i tempi di attesa e la qualità delle risposte hanno però convinto alcuni presidenti e commissari (è il nostro caso) a creare una rete di aiuto reciproco via cellulare: chi scopriva per primo una funzionalità o raggiungeva qualche obiettivo (tipicamente, la stampa della scheda del candidato, un vero rebus!) comunicava agli altri il percorso di click da metter in atto.
Non siamo programmaticamente contro il rinnovamento delle procedure scolastiche, appesantite da una burocratizzazione a dir poco penalizzante. Né siamo aprioristicamente contrari alla politica scolastica (ammesso si possa chiamare così) che il ministro Profumo ha inaugurato. La nostra sarcastica ricostruzione ha un primo ed esplicito scopo: rendere evidente con poche pennellate quanto sia superficiale e demagogico l’aver presentato quanto descritto come “innovazione”, apporto degli esperti under 40 reclutati dal Miur subito dopo l’avvento del governo tecnico. Le tracce arrivano via web e nei prossimi anni probabilmente verranno superati gli impacci di questa prima stagione; ma gli studenti continuano e continueranno a svolgere le prove con carta e penna, ovvero con le tecnologie di comunicazione tradizionali, magari disquisendo di social network, nativi digitali, e responsabilità sociale della scienza e della tecnica, con il plauso dei commentatori integrati e il disappunto degli intellettuali apocalittici. Le commissioni continueranno dal canto loro ad apporre timbri con la ceralacca (sì, avete letto bene, con tanto di candela per sciogliere la cera fornita nel kit in dotazione a ciascuna commissione) sul “pacco” (collazione di svariati chilogrammi di carta – prove, verbali, statini – raccolti e archiviati a conclusione del rito). Questo mentre Internet seguita a essere soprattutto il luogo dove alle 8.43 – a pochi minuti dalla decrittazione, garantita dall’impiego di “tecnologie” militari – è comparsa la traduzione della versione di Aristotele e mentre gli studenti perseverano – nella totale indifferenza di molti insegnanti, che considerano la rete un inutile orpello – a presentare bibliografie in cui i siti consultati sono indicati con il loro URL e non con il loro nome (che ne definirebbe identità culturale e credibilità scientifica) o a infarcire le loro “tesine” di testi copiati-e-incollati senza citare la fonte e di immagini utilizzate senza alcuna attenzione al problema del copyright.
Ma non c’è soltanto questo aspetto di facile denuncia politica: la questione è più ampia. Lo spazio dedicato con entusiasmo dai media a celebrare il successo del “plico telematico”, fatto in sé del tutto banale nel contesto comunicativo attuale – trasmissione di dati in formato digitale per ridurre tempi e spese e necessarie e conseguenti misure di sicurezza – da una parte, e gli atteggiamenti di timore e distacco di molti insegnanti dall’altra sono frutto e testimonianza di una visione della scuola come irriducibilmente “vecchia” e subordinata, strutturalmente inetta per quanto riguarda la modernità. Ciò che in altri ambiti istituzionali e sociali, ma anche in altri spazi della cultura, è pacifico e fa parte dello sfondo, a scuola è insomma costantemente considerato eversivo ed eccezionale, se non miracolistico.
I motivi di questa tendenza sono molteplici. Quella digitale è una pratica importata, mai realmente assimilata e autonomamente considerata e vissuta dal mondo della scuola come davvero culturale. Come la “modernità”, come “l’Europa” – feticci linguistici più che prassi e obiettivi analizzati, studiati ed, eventualmente, perseguiti – la digitalizzazione (molto più di quelli oggetto di investimenti economici) ha rappresentato un must acritico, sinonimo necessario di progresso, cui la scuola – talvolta in maniera recalcitrante – si è più o meno pacatamente adeguata laddove non è stato possibile farne a meno, senza comprenderne le effettive utilità, efficacia, ergonomia operativa e cognitiva. Né mettendo in dubbio il ruolo taumaturgico ad essa affidato. Ma l’effettiva blindatura mentale di molti, che si continua a imputare a una sorta di maggioranza silenziosa, che rifiuterebbe pervicacemente l’innovazione, non è solo frutto delle resistenze e delle inerzie dei docenti. Vanno infatti compresi altri fattori.
Da un lato osserviamo che i molti progetti e piani proposti e realizzati negli anni dal Miur sono alimentati da una prospettiva quasi fideistica: la diffusione dei dispositivi e delle pratiche ad essi collegate garantirebbe in modo deterministico il rinnovamento delle metodologie didattiche. Dall’altro troppi dimenticano le condizioni molto eterogenee delle istituzioni scolastiche, la maggior parte delle quali è caratterizzata da strutture così minimali e inadeguate – spesso insicure, oltre che disadorne o fatiscenti – che non rappresentano né potrebbero rappresentare concretamente il luogo entro il quale sviluppare una autentica dimensione culturale da affidare alla tecnologia. Alla scuola, spesso dell’amianto, delle facciate sovietiche, della lavagna di ardesia, degli arredi spartani, si affibbia una missione “tecnologica” più di facciata che sostanziale: con il conseguente disorientamento, lo scetticismo – e anche una certa rabbia da parte dei meno docili – che tutto ciò comporta. Ne fanno fede i ventilatori portati da casa per far fronte alla sequenza Scipione-Caronte, partita impietosamente insieme all’esame; e il numero di vestiti femminili sacrificati ai chiodi sporgenti delle sedie di legno che – quando non sono proprio le stesse – ricordano perfettamente quelle sulle quali ci sedevamo da adolescenti.
Soprattutto, l’innovazione digitale viene collocata dall’immaginario didattico collettivo in una sorta di zona franca, che neutralizza la concretezza delle scelte e opacizza la direzione degli indirizzi adottati. Quegli stessi che si scagliano con veemenza contro l’adozione di una politica della valutazione dei risultati e degli investimenti che premi le scuole e gli insegnanti già collocati dal punto di vista socio-culturale in condizioni di privilegio o, mentre scriviamo, contro il presunto trasferimento di fondi dall’università alle scuole private, sono del tutto indifferenti di fronte al fatto che i fondi destinati all’acquisto e all’impianto di strumentazioni digitali – per definizione mai sufficienti per tutti gli studenti di tutte le scuole – vengano assegnati, da quasi 20 anni, in base a criteri fondati sulla concorrenza e non sulla compensazione. Questo, magari, mentre sono impegnati a celebrare la valenza cooperativa della comunicazione odierna e l’importanza culturale e democratica dei contenuti aperti e del movimento opensource.
Un ultimo aspetto curioso dal punto di vista sia antropologico sia professionale è l’afflato volontario: con grande generosità personale, infatti, molti di coloro che tentano di introdurre nel proprio profilo professionale e nelle proprie pratiche didattiche le strumentazioni digitali mobilitano le proprie risorse intellettuali (e spesso anche economiche) per affermare la correttezza e l’efficacia delle proprie intenzioni e delle proprie scelte. Questa impostazione è a forte rischio di autoreferenzialità, oltre che di implosione per esaurimento, se non supportata da politiche scolastiche e scelte contrattuali che la sostengano e le diano respiro strategico. Siamo infatti arrivati a situazioni paradossali. Una per tutte: l’autoproduzione da parte degli insegnanti di materiali didattici, sull’onda dell’entusiasmo per i libri digitali. Chi ne è autore diretto è spesso vittima di narcisistica auto-infatuazione; chi ha responsabilità istituzionali ne assume volentieri il patrocinio perché gli garantisce rendita di posizione in quanto promotore della modernità. Entrambi sembrano non rendersi conto che sovraesporre i prodotti formativi e farne il fulcro della mediazione didattica porta con sé un rischio molto pericoloso: nel caso di insuccesso didattico il fallimento potrà essere attribuito solo all’inadeguatezza degli studenti.
L’impressione è che ci troviamo di fronte ad un crocevia. La scelta della direzione da percorrere è improcrastinabile e definitiva. Da una parte possiamo continuare a lasciare la cultura tecnologica in una dimensione di marginalità, rafforzata da proclami ministeriali e fanfare mediatiche che enfatizzano come rivoluzioni banali e dovuti tentativi di emancipare la scuola dalla burocratizzazione borbonica che la immobilizza. Pensare alla tecnologia come la soluzione di problemi che devono essere invece affrontati in sede di ricerca pedagogica e didattica, di revisione dei paradigmi epistemologici delle discipline, di raccordo tra relazione e mediazione educativa e didattica. Di investimenti di risorse professionali ed economiche, di studio e mobilitazione di ricerca, sviluppo e sperimentazione. Dall’altra tentare di rifondare – sulla base della rinuncia a pregiudizi negativi e a dogmatiche e fideistiche convinzioni – una scuola che, come il mondo, tenti di accogliere al proprio interno un rinnovato, dialogico, consapevole, civico approccio alla cultura tecnologica. Questa è la vera interpretazione democratica e inclusiva della competenza digitale definita dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea.
Marina Boscaino e Marco Guastavigna
20 giugno 2012, 8.30 del mattino. Un gruppo di studenti, qualche presidente di commissione, alcuni commissari d’esame e diversi membri del personale di segreteria sono raccolti in uno stanzone già surriscaldato a quell’ora dalla malefica sinergia tra temperatura esterna e numerosi computer accesi.
Il lieto evento, atteso con trepidazione, è l’arrivo, sulla casella postale del referente della scuola, della “chiave pubblica” necessaria – insieme alla “chiave privata”, già pervenuta all’istituto, e stampata su un foglio di carta che poi è stato piegato, pinzato e racchiuso in una busta sigillata per essere consegnato a ciascun presidente – per decrittare le tracce della prima prova (il “tema” di Italiano).
I minuti passano e sulla mail non arriva niente. La tensione cresce, insieme al sudore. L’ansia connaturata alla celebrazione dell’esame di Stato (paura di sbagliare, operazioni che spesso si prolungano in misura insopportabile, lo spettro del ricorso, sempre in agguato) e la prospettiva del flop di ciò che il ministro ha qualche giorno prima definito in modo quantomeno enfatico (“Attraverso l’operazione delle tracce online chiudiamo il Millennio precedente”) terrorizzano gli adulti presenti, mentre divertono i digital natives sorteggiati a testimoniare la legittimità dell’operazione, sulle cui labbra comincia a comparire qualche sorrisetto (2.0, naturalmente).
Ma ecco che uno dei presidenti prorompe in un grido liberatorio: “Ce l’ho! Eccola”. E porge al tecnico della scuola il proprio iPhone, con il quale ha raggiunto la “segretissima” pagina 101 di Televideo, sulla quale compare l’agognata stringa. Tutto ora funziona: i compiti vengono sbloccati e stampati nel numero di copie necessario. Il giorno dopo, in occasione della seconda prova, per la quale va ripetuta la medesima procedura, tutti i presenti dotati di smartphone hanno scaricato l’applicazione che consente di sfogliare le pagine del servizio di informazioni della Rai: la serenità regna assoluta.
Questo aneddoto (assolutamente autentico) è sintomatico di come la scuola “reale” abbia affrontato (ma ci verrebbe da dire subìto) l’innovazione della comunicazione per via digitale in uno degli snodi cruciali del suo percorso didattico e amministrativo. Già il 18 giugno, peraltro, giorno in cui si sono riunite preliminarmente le commissioni di esame, si era registrato il crash dei servizi approntati dal ministero per supportare su Internet la gestione di dati, punteggi e verbali. Tutti coloro che avevano provato ad avviare “Commissione web”, infatti, avevano dovuto constatare che l’applicazione non era disponibile. Nei giorni successivi essa ha cominciato a funzionare, ma ha continuato a generare dubbi e perplessità. Il ministero aveva organizzato una struttura di supporto, con tanto di numero verde; i tempi di attesa e la qualità delle risposte hanno però convinto alcuni presidenti e commissari (è il nostro caso) a creare una rete di aiuto reciproco via cellulare: chi scopriva per primo una funzionalità o raggiungeva qualche obiettivo (tipicamente, la stampa della scheda del candidato, un vero rebus!) comunicava agli altri il percorso di click da metter in atto.
Non siamo programmaticamente contro il rinnovamento delle procedure scolastiche, appesantite da una burocratizzazione a dir poco penalizzante. Né siamo aprioristicamente contrari alla politica scolastica (ammesso si possa chiamare così) che il ministro Profumo ha inaugurato. La nostra sarcastica ricostruzione ha un primo ed esplicito scopo: rendere evidente con poche pennellate quanto sia superficiale e demagogico l’aver presentato quanto descritto come “innovazione”, apporto degli esperti under 40 reclutati dal Miur subito dopo l’avvento del governo tecnico. Le tracce arrivano via web e nei prossimi anni probabilmente verranno superati gli impacci di questa prima stagione; ma gli studenti continuano e continueranno a svolgere le prove con carta e penna, ovvero con le tecnologie di comunicazione tradizionali, magari disquisendo di social network, nativi digitali, e responsabilità sociale della scienza e della tecnica, con il plauso dei commentatori integrati e il disappunto degli intellettuali apocalittici. Le commissioni continueranno dal canto loro ad apporre timbri con la ceralacca (sì, avete letto bene, con tanto di candela per sciogliere la cera fornita nel kit in dotazione a ciascuna commissione) sul “pacco” (collazione di svariati chilogrammi di carta – prove, verbali, statini – raccolti e archiviati a conclusione del rito). Questo mentre Internet seguita a essere soprattutto il luogo dove alle 8.43 – a pochi minuti dalla decrittazione, garantita dall’impiego di “tecnologie” militari – è comparsa la traduzione della versione di Aristotele e mentre gli studenti perseverano – nella totale indifferenza di molti insegnanti, che considerano la rete un inutile orpello – a presentare bibliografie in cui i siti consultati sono indicati con il loro URL e non con il loro nome (che ne definirebbe identità culturale e credibilità scientifica) o a infarcire le loro “tesine” di testi copiati-e-incollati senza citare la fonte e di immagini utilizzate senza alcuna attenzione al problema del copyright.
Ma non c’è soltanto questo aspetto di facile denuncia politica: la questione è più ampia. Lo spazio dedicato con entusiasmo dai media a celebrare il successo del “plico telematico”, fatto in sé del tutto banale nel contesto comunicativo attuale – trasmissione di dati in formato digitale per ridurre tempi e spese e necessarie e conseguenti misure di sicurezza – da una parte, e gli atteggiamenti di timore e distacco di molti insegnanti dall’altra sono frutto e testimonianza di una visione della scuola come irriducibilmente “vecchia” e subordinata, strutturalmente inetta per quanto riguarda la modernità. Ciò che in altri ambiti istituzionali e sociali, ma anche in altri spazi della cultura, è pacifico e fa parte dello sfondo, a scuola è insomma costantemente considerato eversivo ed eccezionale, se non miracolistico.
I motivi di questa tendenza sono molteplici. Quella digitale è una pratica importata, mai realmente assimilata e autonomamente considerata e vissuta dal mondo della scuola come davvero culturale. Come la “modernità”, come “l’Europa” – feticci linguistici più che prassi e obiettivi analizzati, studiati ed, eventualmente, perseguiti – la digitalizzazione (molto più di quelli oggetto di investimenti economici) ha rappresentato un must acritico, sinonimo necessario di progresso, cui la scuola – talvolta in maniera recalcitrante – si è più o meno pacatamente adeguata laddove non è stato possibile farne a meno, senza comprenderne le effettive utilità, efficacia, ergonomia operativa e cognitiva. Né mettendo in dubbio il ruolo taumaturgico ad essa affidato. Ma l’effettiva blindatura mentale di molti, che si continua a imputare a una sorta di maggioranza silenziosa, che rifiuterebbe pervicacemente l’innovazione, non è solo frutto delle resistenze e delle inerzie dei docenti. Vanno infatti compresi altri fattori.
Da un lato osserviamo che i molti progetti e piani proposti e realizzati negli anni dal Miur sono alimentati da una prospettiva quasi fideistica: la diffusione dei dispositivi e delle pratiche ad essi collegate garantirebbe in modo deterministico il rinnovamento delle metodologie didattiche. Dall’altro troppi dimenticano le condizioni molto eterogenee delle istituzioni scolastiche, la maggior parte delle quali è caratterizzata da strutture così minimali e inadeguate – spesso insicure, oltre che disadorne o fatiscenti – che non rappresentano né potrebbero rappresentare concretamente il luogo entro il quale sviluppare una autentica dimensione culturale da affidare alla tecnologia. Alla scuola, spesso dell’amianto, delle facciate sovietiche, della lavagna di ardesia, degli arredi spartani, si affibbia una missione “tecnologica” più di facciata che sostanziale: con il conseguente disorientamento, lo scetticismo – e anche una certa rabbia da parte dei meno docili – che tutto ciò comporta. Ne fanno fede i ventilatori portati da casa per far fronte alla sequenza Scipione-Caronte, partita impietosamente insieme all’esame; e il numero di vestiti femminili sacrificati ai chiodi sporgenti delle sedie di legno che – quando non sono proprio le stesse – ricordano perfettamente quelle sulle quali ci sedevamo da adolescenti.
Soprattutto, l’innovazione digitale viene collocata dall’immaginario didattico collettivo in una sorta di zona franca, che neutralizza la concretezza delle scelte e opacizza la direzione degli indirizzi adottati. Quegli stessi che si scagliano con veemenza contro l’adozione di una politica della valutazione dei risultati e degli investimenti che premi le scuole e gli insegnanti già collocati dal punto di vista socio-culturale in condizioni di privilegio o, mentre scriviamo, contro il presunto trasferimento di fondi dall’università alle scuole private, sono del tutto indifferenti di fronte al fatto che i fondi destinati all’acquisto e all’impianto di strumentazioni digitali – per definizione mai sufficienti per tutti gli studenti di tutte le scuole – vengano assegnati, da quasi 20 anni, in base a criteri fondati sulla concorrenza e non sulla compensazione. Questo, magari, mentre sono impegnati a celebrare la valenza cooperativa della comunicazione odierna e l’importanza culturale e democratica dei contenuti aperti e del movimento opensource.
Un ultimo aspetto curioso dal punto di vista sia antropologico sia professionale è l’afflato volontario: con grande generosità personale, infatti, molti di coloro che tentano di introdurre nel proprio profilo professionale e nelle proprie pratiche didattiche le strumentazioni digitali mobilitano le proprie risorse intellettuali (e spesso anche economiche) per affermare la correttezza e l’efficacia delle proprie intenzioni e delle proprie scelte. Questa impostazione è a forte rischio di autoreferenzialità, oltre che di implosione per esaurimento, se non supportata da politiche scolastiche e scelte contrattuali che la sostengano e le diano respiro strategico. Siamo infatti arrivati a situazioni paradossali. Una per tutte: l’autoproduzione da parte degli insegnanti di materiali didattici, sull’onda dell’entusiasmo per i libri digitali. Chi ne è autore diretto è spesso vittima di narcisistica auto-infatuazione; chi ha responsabilità istituzionali ne assume volentieri il patrocinio perché gli garantisce rendita di posizione in quanto promotore della modernità. Entrambi sembrano non rendersi conto che sovraesporre i prodotti formativi e farne il fulcro della mediazione didattica porta con sé un rischio molto pericoloso: nel caso di insuccesso didattico il fallimento potrà essere attribuito solo all’inadeguatezza degli studenti.
L’impressione è che ci troviamo di fronte ad un crocevia. La scelta della direzione da percorrere è improcrastinabile e definitiva. Da una parte possiamo continuare a lasciare la cultura tecnologica in una dimensione di marginalità, rafforzata da proclami ministeriali e fanfare mediatiche che enfatizzano come rivoluzioni banali e dovuti tentativi di emancipare la scuola dalla burocratizzazione borbonica che la immobilizza. Pensare alla tecnologia come la soluzione di problemi che devono essere invece affrontati in sede di ricerca pedagogica e didattica, di revisione dei paradigmi epistemologici delle discipline, di raccordo tra relazione e mediazione educativa e didattica. Di investimenti di risorse professionali ed economiche, di studio e mobilitazione di ricerca, sviluppo e sperimentazione. Dall’altra tentare di rifondare – sulla base della rinuncia a pregiudizi negativi e a dogmatiche e fideistiche convinzioni – una scuola che, come il mondo, tenti di accogliere al proprio interno un rinnovato, dialogico, consapevole, civico approccio alla cultura tecnologica. Questa è la vera interpretazione democratica e inclusiva della competenza digitale definita dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea.
Marina Boscaino e Marco Guastavigna