di Pier Luigi Celli - Repubblica Economia & Finanza - 2 luglio 2012
Fioriscono iniziative fantasiose e progetti estemporanei che sembrano cogliere l’aura dei tempi che corrono, con una caratteristica che richiama il ciclo delle mode: lucrare sulla depressione da crisi e cogliere l’onda rivendicativa rispetto a quanto si è lungamente tollerato, ergendosi a paladini di una palingenesi di cui ci si annette impropriamente la primogenitura. E’ così che un problema reale - in questo caso la scarsa valorizzazione del merito in un paese fatto di relazioni, connivenze e furbizie - diventa, rapidamente, terreno di conquista di consulenti, salottieri e antemarcia, con tutto il corredo di scritti, convegni, associazioni e un di più di retorica che sa di salotto più che di impegno.
Csegue dalla prima he sia giusto parlarne è fuori discussione. Che si sia abilitati a farlo, pur prescindendo dalle personali storie professionali di ognuno, dovrebbe richiedere forse una attenzione diversa alla sostanza intera della questione più che discettare direttamente degli strumenti per fronteggiare la sua crisi, dal momento che per inquadrare il problema antefatti e conseguenze non sono irrilevanti rispetto alla possibilità di operare con successo sulle distorsioni che generano l’abuso e la sua stessa continuità. L’impressione, invece, è che ci si preoccupi più di fornire ricette, di dare consigli disinteressati, di inventare premi e quantificare punteggi, senza rendersi conto che la credibilità dell’impegno in questo campo passa
largamente dall’esempio che si è in grado di dare, dall’impegno operativo a lavorare con continuità sulle cause e sugli effetti della degenerazione in atto, recuperando un po’ di cultura critica sui temi che si affrontano e non accontentandosi di fare benchmarking, saccheggiando letteratura anglosassone. Chi è impegnato quotidianamente e da anni in un lavoro magari oscuro, faticoso, sul versante che più condiziona la possibilità di parlare poi di merito, vale a dire nella scuola dei vari cicli e fino all’università, sta sviluppando una irritazione profonda rispetto a questa modalità un po’ precettistica e molto salottiera di porre il tema all’attenzione pubblica, spesso senza toccare il livello vero delle cause, là dove politica, economia imprenditiva di certa tradizione, corporazioni varie e ceti di rappresentanza autoriferiti, hanno degradato a lungo ogni criterio di merito, avvallando nei fatti comportamenti riprovevoli. Chi parla oggi dovrebbe ricordarsi di dov’era quando il degrado prendeva piede, quali resistenze ha opposto a certe pratiche, come ha scelto i migliori, e non solo per il curriculum - troppo facile, operando quasi sempre su una elite - ma tenendo conto di quelle qualità umane e dei risvolti sociali che avrebbero potuto immettere in circolo valori condivisi. Pensare di risolvere il problema con una chiamata alle armi dei più giovani a cui offrire percorsi qualificati e stimolando una competitività senza sacramenti e senza dubbi, credo sia una di quelle operazioni scorrette che invece di toccare il cuore del tema in oggetto finisce solo per mistificarlo, aprendo a una stagione elitaria per i pochi eletti, ancora una volta irresponsabili all’inizio, comeinisti negli affidamenti futuri. Non si può parlare di merito senza affrontare il tema centrale della uguaglianza delle chances di partenza e della progressiva riduzione dei divari sociali ed economici al termine del percorso di accreditamento lavorativo e di assunzione di responsabilità civili complessive. E’ per questo che ogni intervento sul percorso di mezzo, al di là delle buone intenzioni, rischia di presentarsi come una legittimazione degli squilibri, una loro accentuazione; fornendo regole uguali per tutti che operano senza equità su situazioni diseguali. In definitiva, torna rilevante un antico principio che la tradizione più o meno recente del Paese ha trovato comodo spesso dimenticare: il diritto di parola è di tutti, ma la credibilità è di quelli che, sulle parole, hanno investito sporcandosi le mani, misurandosi con la realtà scomoda di generazioni di giovani cui il futuro non sembra riservare immediatamente opzioni e riconoscimenti meritocraticamente appetibili. Hic Rhodus, hic salta. Quando, sarà largamente condivisa, e non solo dagli addetti ai lavori, la fatica di costruire nei fatti le condizioni per cui chi cresce possa farlo senza doversi inchinare in alto, né difendere dai suoi simili, accreditati, da certa cultura devota oltreoceano, come i primi, potenziali nemici nella scalata alla carriera, allora penso sarà anche più credibile il ricettario che ci propongono. Il merito è questione seria, non risolvibile senza una chiamata alle armi generale, che individui prima di tutto le responsabilità. Ed è banale e riduttivo guardare solo, o prevalentemente, a insegnanti e professori.
Fioriscono iniziative fantasiose e progetti estemporanei che sembrano cogliere l’aura dei tempi che corrono, con una caratteristica che richiama il ciclo delle mode: lucrare sulla depressione da crisi e cogliere l’onda rivendicativa rispetto a quanto si è lungamente tollerato, ergendosi a paladini di una palingenesi di cui ci si annette impropriamente la primogenitura. E’ così che un problema reale - in questo caso la scarsa valorizzazione del merito in un paese fatto di relazioni, connivenze e furbizie - diventa, rapidamente, terreno di conquista di consulenti, salottieri e antemarcia, con tutto il corredo di scritti, convegni, associazioni e un di più di retorica che sa di salotto più che di impegno.
Csegue dalla prima he sia giusto parlarne è fuori discussione. Che si sia abilitati a farlo, pur prescindendo dalle personali storie professionali di ognuno, dovrebbe richiedere forse una attenzione diversa alla sostanza intera della questione più che discettare direttamente degli strumenti per fronteggiare la sua crisi, dal momento che per inquadrare il problema antefatti e conseguenze non sono irrilevanti rispetto alla possibilità di operare con successo sulle distorsioni che generano l’abuso e la sua stessa continuità. L’impressione, invece, è che ci si preoccupi più di fornire ricette, di dare consigli disinteressati, di inventare premi e quantificare punteggi, senza rendersi conto che la credibilità dell’impegno in questo campo passa
largamente dall’esempio che si è in grado di dare, dall’impegno operativo a lavorare con continuità sulle cause e sugli effetti della degenerazione in atto, recuperando un po’ di cultura critica sui temi che si affrontano e non accontentandosi di fare benchmarking, saccheggiando letteratura anglosassone. Chi è impegnato quotidianamente e da anni in un lavoro magari oscuro, faticoso, sul versante che più condiziona la possibilità di parlare poi di merito, vale a dire nella scuola dei vari cicli e fino all’università, sta sviluppando una irritazione profonda rispetto a questa modalità un po’ precettistica e molto salottiera di porre il tema all’attenzione pubblica, spesso senza toccare il livello vero delle cause, là dove politica, economia imprenditiva di certa tradizione, corporazioni varie e ceti di rappresentanza autoriferiti, hanno degradato a lungo ogni criterio di merito, avvallando nei fatti comportamenti riprovevoli. Chi parla oggi dovrebbe ricordarsi di dov’era quando il degrado prendeva piede, quali resistenze ha opposto a certe pratiche, come ha scelto i migliori, e non solo per il curriculum - troppo facile, operando quasi sempre su una elite - ma tenendo conto di quelle qualità umane e dei risvolti sociali che avrebbero potuto immettere in circolo valori condivisi. Pensare di risolvere il problema con una chiamata alle armi dei più giovani a cui offrire percorsi qualificati e stimolando una competitività senza sacramenti e senza dubbi, credo sia una di quelle operazioni scorrette che invece di toccare il cuore del tema in oggetto finisce solo per mistificarlo, aprendo a una stagione elitaria per i pochi eletti, ancora una volta irresponsabili all’inizio, comeinisti negli affidamenti futuri. Non si può parlare di merito senza affrontare il tema centrale della uguaglianza delle chances di partenza e della progressiva riduzione dei divari sociali ed economici al termine del percorso di accreditamento lavorativo e di assunzione di responsabilità civili complessive. E’ per questo che ogni intervento sul percorso di mezzo, al di là delle buone intenzioni, rischia di presentarsi come una legittimazione degli squilibri, una loro accentuazione; fornendo regole uguali per tutti che operano senza equità su situazioni diseguali. In definitiva, torna rilevante un antico principio che la tradizione più o meno recente del Paese ha trovato comodo spesso dimenticare: il diritto di parola è di tutti, ma la credibilità è di quelli che, sulle parole, hanno investito sporcandosi le mani, misurandosi con la realtà scomoda di generazioni di giovani cui il futuro non sembra riservare immediatamente opzioni e riconoscimenti meritocraticamente appetibili. Hic Rhodus, hic salta. Quando, sarà largamente condivisa, e non solo dagli addetti ai lavori, la fatica di costruire nei fatti le condizioni per cui chi cresce possa farlo senza doversi inchinare in alto, né difendere dai suoi simili, accreditati, da certa cultura devota oltreoceano, come i primi, potenziali nemici nella scalata alla carriera, allora penso sarà anche più credibile il ricettario che ci propongono. Il merito è questione seria, non risolvibile senza una chiamata alle armi generale, che individui prima di tutto le responsabilità. Ed è banale e riduttivo guardare solo, o prevalentemente, a insegnanti e professori.