di Marina Boscaino da MicroMega Ultimo viene Porro. Il capelluto e assai garbato Porro presenta ai lettori del Giornale, con aria dottorale, da chi la sa lunga e su qualsiasi cosa e che non esita a cantarle chiare, il suo plauso ai provvedimenti previsti dal governo in merito al passaggio forzoso dalle 18 alle 24 ore settimanali di lezione per i docenti di scuola media e superiore, candidandosi a seguire banalmente e degnamente la schiera dei detrattori di professione della scuola pubblica italiana: Ichino, Panebianco, Giavazzi, Galli Della Loggia. Che, non c’è che dire, hanno fatto un ottimo lavoro, nel tempo, considerando certi rigurgiti di disprezzo e livore per gli insegnanti che schizzano dagli interventi sui blog o dalle lettere ai quotidiani. In realtà il Porro pensiero di sostanzia di chiacchiere da bar, infarcite di quella disinformazione dalla quale non è stato evidentemente emancipato da qualche parente insegnante o dalla pratica spicciola dell’aver accompagnato eventuali figli o nipoti a scuola: a questo si limita, infatti, la conoscenza del tema da parte dei più esimi colleghi.Il ministro dell’Istruzione, Profumo, ha inserito nell’ultima legge di stabilità l’aumento, a parità di stipendio, dell’orario di lavoro per professori di scuola. La legge prevede il passaggio da 18 ore settimanali a 24. In cambio i professori otterrebbero 15 giorni di vacanze in più all’anno. Porro, come molti profeti dell’ultima ora e non solo – compreso il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria, rappresentato nell’immaginario collettivo come “maestro di strada”, in realtà protagonista di diverse attività con connotazione politica, in particolare la segreteria tecnica del Vice-Ministro della Pubblica Istruzione del Governo Prodi II, Mariangela Bastico, dall’agosto 2006 al maggio 2008, che sul suo blog ha testualmente affermato: “In Europa siamo gli unici a far coincidere l’orario di lavoro con le ore di didattica curricolare in classe” – ignora che il contratto degli insegnanti non prevede esclusivamente le ore di lezione. Esso prevede e quantifica tutta una serie di attività (dai consigli di classe agli incontri con i genitori ai collegi docenti). Tutto questo è retribuito con le tabelle stipendiali ordinarie, mentre altre attività sono considerate aggiuntive e pagate a parte: soprassiedo sulla irrisorietà di tali ulteriori pagamenti e sulla lentezza della riscossione, considerata la situazione debitoria dello Stato nei confronti degli istituti scolastici. Restano fuori da qualsiasi quantificazione correzione degli elaborati e partecipazione agli scrutini, che sono considerate inerenti in modo assoluto la funzione docente e quindi un obbligo di servizio non quantificato e di nuovo già retribuito con il salario-base. La volontaria (o ignorante?) confusione tra orario di lavoro e orario di lezione continua a creare disinformazione e ambiguità.
Secondo Porro questa buona proposta non passerà perché in un momento in cui a tutti è chiesto un grande sacrificio, la casta delle nostre scuole non ci sta. Nella debàcle economica del Paese, in cui tutti fanno immensi sacrifici, noi prof ci opponiamo al provvedimento (con la forza della casta quale siamo) per difendere i nostri 1600 euro al mese di stipendio, il nostro contratto bloccato dal 2006 al 2014 almeno, le nostre classi-pollaio, il discredito sociale e culturale che gente proprio come Porro, che della e nella casta (quella vera) si nutre e si arricchisce, ha contribuito a creare, alimentando mala- e dis-informazione.
Per essere precisi un insegnante di italiano lavora circa 700-800 ore l’anno, per 165-175 giorni. Fate un conto su voi stessi. Sono proprio quell’insegnante di Italiano cui con tanta gentilezza e rispetto Porro si rivolge. Nel 2011-12 ho iniziato l’anno scolastico l’1 settembre e l’ho chiuso il 17 luglio, data in cui ho concluso l’esame di Stato. Le ore di lezione che ho svolto sono state all’incirca 680 ore – quindi inferiori alla stima dell’esimio e documentatissimo giornalista. I giorni previsti annualmente per la didattica – nei calendari regionali preposti a stabilirli – non possono essere inferiori a 200; quest’anno, nella mia regione, il Lazio, sono previsti 209 giorni di didattica. Ma, per l’appunto, i giorni di didattica non prevedono la prima metà del mese di settembre, durante la quale si svolgono collegi dei docenti, riunioni di dipartimento, riunione per materie, consigli di classe, programmazione, esami di recupero, relativi scrutini; né la fine di giugno (con analoghe pratiche per la chiusura dell’anno); generalmente intorno al 20 giugno inizia poi l’esame di Stato, che si conclude alla metà di luglio. Di cosa parla Porro? E, soprattutto, chi gli ha fornito quei dati deliranti?
Sindacati e professori dicono che lavorano anche al di fuori dell’aula. Sacrosanto. Ma per quale motivo non hanno mai voluto quantificarlo nei loro contratti collettivi? Per quale motivo la maggioranza dei nostri insegnanti gode di fatto di più ferie di quante essi avrebbero sulla carta? Alla prima domanda ho già risposto. Del resto, è evidente che Porro parla del nostro contratto senza la minima cognizione di causa. Alla seconda in parte. Gli insegnanti di ruolo godono di 32 giorni di ferie più 4 di festività soppresse, sforati i quali siamo tenuti a dichiarare la nostra reperibilità e disponibilità. Ma, per quanto riguarda me e moltissimi altri colleghi, riusciamo appena a coprire i giorni che ci spettano.
Il novello Esopo – dopo aver raccontato la sua favoletta infarcita di falsità e demagogia di basso profilo – conclude formularmente: Cosa insegna questa storia? E poi vaticina lapidariamente: che la difesa del posto di lavoro per i precari (che al momento fanno le ore che sarebbero assorbite da noi insegnanti di ruolo) sarebbe un’obiezione (che) tradisce il senso ultimo delle palle ideologiche sulla formazione che si sentono in giro. La pubblica istruzione non è pensata per le generazioni future, ma come ammortizzatore sociale per il lavoro. Ciò che contano non sono gli studenti e la qualità dell’istruzione, ma la possibilità di impiegare più personale. Almeno abbiate il coraggio di dirlo chiaramente, senza ipocrisie: la scuola non serve a formare studenti, ma a generare posti di lavoro. Qualche sospetto lo avevamo da tempo: dietro a tante belle questioni pedagogiche, il passaggio alle tre maestre elementari poggiava le sue radici più profonde e nobili nella necessità di triplicare le cattedre. La scuola è l’ultimo residuo del consociativismo che ha generato irresponsabilmente il nostro debito pubblico.
Meno male che Porro c’è. Ma – pur essendoci – ha vissuto in uno strano mondo in cui – invece di accanirsi sull’evasione, sull’incuria, sull’abuso, sul malgoverno, sulle prevaricazioni – prende di mira la categoria che, comparativamente, percepisce i salari più bassi d’Europa; grazie alla quale la totale rimozione da parte dei nostro governanti di istanze di carattere pedagogico, didattico e culturale in senso ampio continuano a sopravvivere; che non ha scrivania, computer, materiale per svolgere il proprio lavoro, un telefono da cui chiamare (il teatro, l’esperto, la psicologa, le famiglie…), uno spazio più grande di un cassetto in cui infilare la propria roba (libri, compiti in classe, documenti, il PROPRIO computer). Di cosa parla, Porro? C’è davvero bisogno di tante menzogne e di tanta squallida disinformazione per tentare il colpo di teatro della voce fuori dal coro? Non si rende conto di ripetere, per l’ennesima volta, parole già dette da altri – in uno stanco esercizio di stile politicamente scorretto – grazie alle quali la scuola pubblica è stata ridotta a palestra di resistenza di chi si ostina a rispondere al mandato costituzionale di licenziare cittadini consapevoli?
La ciliegina sulla torta è nella conclusione, maldestro tentativo di non rendersi inviso a tutti, ma proprio a tutti i docenti italiani, con una chiusa da libro Cuore sugli studenti, cui il novello castigamatti della pubblica istruzione riserva il conclusivo, patetico, (ir)responsabile pensiero. L’ultima considerazione riguarda quei numerosi professori che ancora svolgono il loro dovere con coscienza e serietà. Che già oggi lavorano 24-30 ore alla settimana, senza alcun riconoscimento pubblico, che amano i loro studenti e la propria missione. E che vedono la professione schiacciata da un conformismo al ribasso in cui ai diritti sindacali non corrisponda alcun dovere educativo. Dal punto di vista lavorativo sono proprio costoro i primi a pagare il micidiale accordo consociativo basato sullo scambio: poco lavoro, poco stipendio. E gli studenti? A no, quelli non contano. Sono solo uno strumento di lavoro.
Non ce la beviamo, caro Porro. Anche in questo caso, eccomi; e – come me – tanti altri: amici, colleghi, gente dignitosa che educa giovani in formazione esattamente come lei diseduca i suoi lettori, con fandonie, cialtronerie, chiacchiere da bar, demagogia a basso costo e di bassa qualità. Anche questa volta ha sbagliato, giocando a ribasso. Le ore che ha indicato sono meno di quelle che – se vivessimo in un Paese civile, in cui i tuttologi come lei non avessero deciso di sparare a zero sulla scuola pubblica e sui suoi operatori – ci verrebbero riconosciute.
Caro Porro, poiché insegno anche Latino, le ricordo che Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Lei con la sua superficialità e approssimazione ha offeso un’intera categoria di professionisti; quelli che lei ha – con una captatio benevolentiae dell’ultimo istante – tentato di lusingare nell’ultimo passaggio del suo articolo, sono la maggior parte degli insegnanti italiani. Che aspetta da lei scuse convincenti.