Ci sono alcune battaglie che paiono velleitarie e di retroguardia ai nostri occhi annacquati dal vuoto pneumatico; non sono né moderne, né à la page, né tecnologicamente significative, né provocatorie, né urlate. Mancano, cioè, dei requisiti minimi di accettabilità e visibilità in un mondo galleggiante e decomplessificato come il nostro.
Ma sono le più importanti. Sono battaglie culturali che affidano ancora alla cultura il valore che essa ha rivestito e le è stato riconosciuto prima della trionfale ascesa del Pensiero Unico. Ci vuole tempo per seguirle e sostenerle. Esse non sono comunicabili con un sms (short message service), né con un tweet. Si basano su studio, approfondimento, competenza accumulata in anni di ricerca. Leggete, ad esempio, l’interessante lettera indirizzata alla Carrozza dall’Associazione degli Italianisti al ministro Carrozza in merito ai test Invalsi. Ci vogliono pochi minuti, ma penserete un sacco di cose.
La legge affida integralmente al collegio dei docenti le competenze in materia didattica. Ciascun insegnate, dunque, in quanto membro di quell’organismo, nonché delle sue articolazioni – i dipartimenti disciplinari, i consigli di classe – e ciascun insegnante nella propria libertà di insegnamento esercita tale competenza e prerogativa. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un costante e implacabile impoverimento sia di queste stesse funzioni, sia della capacità dei docenti di rivendicarne l’esercizio. È accaduto così che la concezione didattico-pedagogica (sic!) che orienta le prove Invalsi si sia insinuata e, in alcuni casi, abbia orientato potentemente, quando non soppiantato, il cosa, il come e il perché gli insegnanti facevano scuola. L’obbligatorietà dei test Invalsi in alcune classi della scuola primaria e all’esame che conclude il ciclo della scuola secondaria di primo grado ha limitato scelte, strategie, modalità, obiettivi, dando luogo in alcuni casi al ribaltamento delle prospettive che sono alla base di quelle domande che il singolo docente – e, con lui, il sistema scolastico nazionale – dovrebbe porsi quotidianamente: che cosa, come e perché insegno?
Da tempo le risposte di alcuni insegnanti e quelle dell’istituzione a quei quesiti non coincidono più. Altri hanno invece preferito seguire i diktat dall’alto che scandivano il passaggio, attraverso una normativa incerta e con l’aiuto dello zelo delle case editrici; che immediatamente hanno omologato i propri prodotti agli orientamenti ministeriali, dettando l’agenda del cambiamento nell’azione didattica e pedagogica della scuola italiana, trovando l’acquiescenza di docenti che hanno smarrito la consapevolezza delle proprie prerogative, del proprio ruolo, della propria funzione; e spesso insegnano per addestrare ai test. Ci siamo fatti così scippare riconoscimento culturale e giuridico delle nostre funzioni, competenze, responsabilità rispetto ad una formazione critica dei futuri cittadini. Abbiamo consentito un rapido allontanamento da metodologie e da obiettivi definiti dalla nostra tradizione didattico-pedagogica e a lungo praticati nelle nostre scuole. Accettando una prospettiva incoerente con il nostro passato, che ha costruito un modello di (dis)apprendimento “meccanizzato”, non più basato sulla pluralità dei punti di vista e sinergia tra conoscenze, competenze e abilità, e con essi dei saperi analitico-critici complessi.
Stiamo sperperando ricchezze: alcuni senza troppi rimpianti, resistenze, consapevolezza, in nome di un’azione di persuasione – occulta o meno – che trova le proprie ipocrite ragioni nelle presunte richieste dell’Europa e negli orientamenti culturali di altri Paese, che però stanno ritornando sui propri passi. Stiamo dilapidando un patrimonio dall’indubbia validità e, con esso, il pensiero critico e divergente (e quindi la Cultura). Dall’inizio del nuovo millennio, è stato questo l’obiettivo trasversale di coloro che hanno orientato le politiche scolastiche. Per inerzia, per apatia, per rassegnazione, per stanchezza, gli stiamo dando ragione.
Marina Boscaino
(31 dicembre 2013)