di Daniela Minerva (ha collaborato Simone Valesini)
E così parole come "professori", "scuola", "università" fanno di nuovo capolino nel discorso pubblico che le aveva dimenticate da circa vent'anni. Ritornano nell'agenda politica proprio mentre in tutto il Paese, taglio dopo taglio, abbandono dopo abbandono, l'intero edificio scolastico cade letteralmente e metaforicamente a pezzi. I contraccolpi del ventennio ignorante si sentono ovunque, e anche uno come Pier Luigi Celli sembra, per la prima volta dopo tanti anni, troppo deluso per aver voglia di raccontarci la sua ricetta. Eppure lui un'idea di come devono essere gli insegnanti, di cosa deve fare e dare la scuola, di come deve organizzarsi l'università ce l'ha da tempo. E da tempo sostiene che la formazione e l'apprendimento si giocano attorno al professore; un maestro, capace di accompagnare un ragazzo a riconoscere il suo talento e a puntarci sul serio. Poi, uno sguardo là fuori e le parole scritte nero su bianco nel suo ultimo libro, "Alma matrigna. L'università del disincanto" (Imprimatur, Bologna 2013), un «addio amaro», frutto della sfiducia e della disillusione.
Dopo otto anni di direzione generale della Luiss, Pier Luigi Celli fatica a pensare che l'intero sistema italiano dell'istruzione possa riformarsi. Eppure, lui che a tenere le redini di una grande università privata ci era arrivato dopo un cursus honorum nelle più grandi aziende aziende italiane, dalla Rai all'Enel, dopo anni spesi a occuparsi di formazione di altissimo livello, non è uno capace di gettare la spugna. E se gli chiedi quattro, cinque cose da fare subito per riprendere quota, non si tira indietro.
La scuola e l'istruzione sembrano tornati al centro del dibattito politico. Gli insegnanti sono il ponte per riportare nelle scuole il civismo e, come lei scrive nel suo libro, "ridare vigore, coraggio e speranza"?
«Io credo di si. Se non si limitano a far lezione. Ma dimostrano che le cose che insegnano possono aiutare il Paese ad uscire fuori dalla sua crisi, che servono a fare qualcosa di concreto, a diventare quello che essi vogliono diventare. Allora i professori sono davvero dei "maestri". E il maestro è uno che si fa carico, che si prende cura, che si preoccupa delle conseguenze che hanno le cose che insegna rispetto alle cose che si possono fare».
Il maestro è al centro della sua idea di insegnamento. Può farne un identikit?
«Essere maestro significa assumersi delle responsabilità ulteriori, non semplicemente raccontare dei saperi, ma far capire che quei racconti sono storie in cui tu sei protagonista, in cui tu entri. Io ho sempre presente i miei maestri che quando ero in difficoltà sono stai capaci di prendermi per mano e dirmi: "ragazzo, qui ci sono delle cose che devi leggere, che devi studiare, e queste sono le cose che devi andare a vedere. Poi torni e me le racconti; così potremo vedere come andare avanti". Erano persone che mi dedicavano il loro tempo».
Lei pensa che la società, la famiglia, riconoscano questo ruolo ai prof?
«Se così fosse certamente i docenti verrebbero valorizzati di più, e forse pagati un po' meglio. I riconoscimenti sociali sono scarsi, anche perché una figura come questa è quasi in controtendenza rispetto alla cultura emergente che benedice coloro che si sono fatti da soli. L'idea è: i migliori riescano nella vita indipendentemente dalle condizioni di contorno. Ma abbiamo ben visto che una società di questo tipo ci ha portati ad un livello di degrado tale per cui oggi avremmo davvero bisogno di recuperare i valori civili della solidarietà. È nel quadro di questi valori - solidarietà, cooperazione, comunità - che il maestro diventa una figura centrale, che riesce a restituire ai giovani l'idea che ci sono cose che valgono più ancora dei risultati, dei vantaggi che possono dare».
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E così parole come "professori", "scuola", "università" fanno di nuovo capolino nel discorso pubblico che le aveva dimenticate da circa vent'anni. Ritornano nell'agenda politica proprio mentre in tutto il Paese, taglio dopo taglio, abbandono dopo abbandono, l'intero edificio scolastico cade letteralmente e metaforicamente a pezzi. I contraccolpi del ventennio ignorante si sentono ovunque, e anche uno come Pier Luigi Celli sembra, per la prima volta dopo tanti anni, troppo deluso per aver voglia di raccontarci la sua ricetta. Eppure lui un'idea di come devono essere gli insegnanti, di cosa deve fare e dare la scuola, di come deve organizzarsi l'università ce l'ha da tempo. E da tempo sostiene che la formazione e l'apprendimento si giocano attorno al professore; un maestro, capace di accompagnare un ragazzo a riconoscere il suo talento e a puntarci sul serio. Poi, uno sguardo là fuori e le parole scritte nero su bianco nel suo ultimo libro, "Alma matrigna. L'università del disincanto" (Imprimatur, Bologna 2013), un «addio amaro», frutto della sfiducia e della disillusione.
Dopo otto anni di direzione generale della Luiss, Pier Luigi Celli fatica a pensare che l'intero sistema italiano dell'istruzione possa riformarsi. Eppure, lui che a tenere le redini di una grande università privata ci era arrivato dopo un cursus honorum nelle più grandi aziende aziende italiane, dalla Rai all'Enel, dopo anni spesi a occuparsi di formazione di altissimo livello, non è uno capace di gettare la spugna. E se gli chiedi quattro, cinque cose da fare subito per riprendere quota, non si tira indietro.
La scuola e l'istruzione sembrano tornati al centro del dibattito politico. Gli insegnanti sono il ponte per riportare nelle scuole il civismo e, come lei scrive nel suo libro, "ridare vigore, coraggio e speranza"?
«Io credo di si. Se non si limitano a far lezione. Ma dimostrano che le cose che insegnano possono aiutare il Paese ad uscire fuori dalla sua crisi, che servono a fare qualcosa di concreto, a diventare quello che essi vogliono diventare. Allora i professori sono davvero dei "maestri". E il maestro è uno che si fa carico, che si prende cura, che si preoccupa delle conseguenze che hanno le cose che insegna rispetto alle cose che si possono fare».
Il maestro è al centro della sua idea di insegnamento. Può farne un identikit?
«Essere maestro significa assumersi delle responsabilità ulteriori, non semplicemente raccontare dei saperi, ma far capire che quei racconti sono storie in cui tu sei protagonista, in cui tu entri. Io ho sempre presente i miei maestri che quando ero in difficoltà sono stai capaci di prendermi per mano e dirmi: "ragazzo, qui ci sono delle cose che devi leggere, che devi studiare, e queste sono le cose che devi andare a vedere. Poi torni e me le racconti; così potremo vedere come andare avanti". Erano persone che mi dedicavano il loro tempo».
Lei pensa che la società, la famiglia, riconoscano questo ruolo ai prof?
«Se così fosse certamente i docenti verrebbero valorizzati di più, e forse pagati un po' meglio. I riconoscimenti sociali sono scarsi, anche perché una figura come questa è quasi in controtendenza rispetto alla cultura emergente che benedice coloro che si sono fatti da soli. L'idea è: i migliori riescano nella vita indipendentemente dalle condizioni di contorno. Ma abbiamo ben visto che una società di questo tipo ci ha portati ad un livello di degrado tale per cui oggi avremmo davvero bisogno di recuperare i valori civili della solidarietà. È nel quadro di questi valori - solidarietà, cooperazione, comunità - che il maestro diventa una figura centrale, che riesce a restituire ai giovani l'idea che ci sono cose che valgono più ancora dei risultati, dei vantaggi che possono dare».
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