Invalsi e altre storie. Intervista a Giorgio Israel

A cura di Emanuela Annaloro


Da oggi apriamo un dibattito sulla valutazione. Il campo di analisi, come è noto, è molto vasto. Secondo Giancarlo Cerini, ad esempio, possiamo “rintracciare i diversi profili di una valutazione strettamente didattica (rivolta ad apprezzare i processi e gli esiti dell’apprendimento), una di istituto (volta a rilevare le caratteristiche del servizio erogato da uno “stabilimento” scolastico), una valutazione di sistema, orientata a cogliere le grandi tendenze, il rapporto costi/benefici, i macro-indicatori, il peso delle variabili geografiche e territoriali."
Qui ce ne occuperemo seguendo tre prospettive: 1) la logica culturale della valutazione 2) la valutazione di sistema 3) la valutazione nella didattica.

E.A: Gli insegnanti di scuola sono alle prese con due spinte contrastanti: da un lato si richiede loro di rendere misurabili, oggettivabili e dunque valutabili gli apprendimenti, dall'altro gli si richiede di tener conto nella prassi didattica, e dunque anche in sede valutativa, di tutte le soggettività e individualità presenti nella classe. Si direbbe che a scuola esiste una cultura dello standard oggettivo che convive con una cultura della soggettività discrezionale. 
G. I: Il modo stesso in cui è posta la questione indica l’equivoco – diciamo pure il patente errore epistemologico – che, malauguramente. è stato reso senso comune in questi anni: la valutazione esiste soltanto se gli apprendimenti sono misurabili e oggettivabili. Ma i giudizi aventi carattere oggettivo – il che significa che s’impongono in modo indiscutibile al di là di qualsiasi dissenso, come 2 + 2 = 4 – sono pochi e sono possibili soltanto entro una parte limitata delle scienze cosiddette “esatte” e in un complesso di constatazioni empiriche elementari. Il resto è affidato a valutazioni con una componente soggettiva che possono aspirare, attraverso il confronto di opinioni, a un grado quanto più possibile elevato di consenso (insisto su questa idea: grado quanto più possibile elevato di consenso). Le grandezze misurabili sono in numero molto limitato. Si può parlare di misurabilità soltanto quando è possibile definire in modo univoco (anche soltanto operativo) un’unità di misura. Altrimenti, parlare di misurabilità è una presa in giro: neppure la temperatura era una grandezza misurabile, nell’epoca dei termometri e prima dell’introduzione del concetto di zero assoluto in termodinamica. Quando venne introdotto il concetto che ancor oggi ha un ruolo chiave nella rappresentazione matematica delle scelte soggettive, e cioè il concetto di utilità (e di funzione di utilità), il fondatore dell’economia matematica moderna Léon Walras fu costretto ad ammettere che non si trattava di una grandezza misurabile, dicendo che se l’economia matematica non poteva essere concepita come una scienza fisico-matematica si poteva tentare di pensarla come una scienza psichico-matematica in cui la matematica consentiva rappresentazioni quantitative generali dei processi economici senza aspirare a misurazioni concrete. Quando il celebre matematico Henri Poincaré fu chiamato dalla Corte di Cassazione francese a dare un parere sulle perizie calligrafiche che avrebbero stabilito la colpevolezza del capitano Alfred Dreyfus nel celebre caso (che era stato il pretesto per un’ondata di antisemitismo nella Francia di fine Ottocento), scrisse un rapporto di cento pagine che si concludeva con l’affermazione perentoria che tentare di sostituire gli elementi morali con cifre è «pericoloso e vano» e che «occorre astenersi assolutamente dall’applicare il calcolo alle cose morali», ovvero dal praticare quel che definì «lo scandalo della scienza». Non credo che si possa liquidare il punto di vista di uno dei più grandi scienziati degli ultimi secoli – peraltro largamente condiviso – come irrilevante. Potrei citare la critica durissima fatta da uno dei fondatori della biologia molecolare moderna, François Jacob, della nozione di IQ (quoziente intellettivo), da lui ritenuta una vera e propria cialtronata. So bene che la tendenza è di scavalcare queste obiezioni ricorrendo a concetti di misurazione definiti all’interno di una teoria formalizzata, ovvero di un modello matematico. Questo è il caso del modello di Rasch, largamente usato dall’Invalsi nelle sue stime. Ma – a parte le tante critiche che gli sono state mosse, in particolare per non tenere conto della multidimensionalità dei processi che pretende di rappresentare – il fatto è che se si ricorre a un concetto di misurazione formale, e quindi definito senza alcuna relazione con l’oggetto empirico da misurare, occorre giustificare la validità empirica del modello usato. Altrimenti tutto si risolve in una colossale presa in giro. Ma fare questo è non meno difficile che definire l’unità di misura della bravura o della competenza. E difatti non viene neppure tentato. Pertanto siamo di fronte a giochi formali contrabbandati come analisi di fatti reali, come purtroppo accade spesso nella modellistica matematica contemporanea.
Ho insistito su questo punto perché è ora di demistificare un’epistemologia della domenica che impone dei ridicoli concetti di misurazione e di oggettività di ciò che, per sua natura, non è né misurabile, né oggettivo, come lo sono tutti i processi in cui interviene la libertà soggettiva e la scelta umana. Questo non significa affatto che non si possa valutare. Naturalmente la valutazione delle capacità di un allievo – delle sue prestazioni intellettuali, dei suoi compiti, delle sue risposte alle interrogazioni – proviene dal giudizio soggettivo dell’insegnante-valutatore ed è perfettamente corretto che si voglia rendere il giudizio quanto più possibile valido per tutti: quanto più possibile, mai assolutamente indiscutibile. Si tratta quindi di perseguire, attraverso il confronto tra giudizi di valutatori diversi, un grado il più possibile elevato di consenso, in modo che la valutazione possa essere considerata imparziale ed equanime: questi sono i termini che è corretto usare, anziché quello di misurazione oggettiva che scimmiotta in modo puerile ciò che è possibile in una sfera molto limitata delle scienze “esatte” o dell’osservazione empirica diretta.
D’altra parte le cosiddette “misurazioni oggettive” vengono fatte con i test, presentati appunto come la chiave per raggiungere quell’obbiettivo. Uno dei fautori di questo metodo tentò di difendersi ridicolmente dalle mie contestazioni dicendo che l’unità di misura delle competenze è il test…. Ma i test sono espressione delle idee soggettive di chi li fa! Non hanno alcun valore oggettivo. Non a caso sono costantemente oggetto di discussioni accanite e dissensi circa il loro valore. Dove sta quindi l’oggettività? Non a caso le passate gestioni dell’Invalsi si sono sempre guardate bene dal rispondere alle critiche specifiche di questo o quel test: altrimenti sarebbe stato come ammettere che i test proposti non avevano il carattere di validità indiscutibile che solo può conferire loro la qualifica di metro di valutazione oggettiva. Ma credere di cavarsela così, e cioè evitando la discussione, presuppone di avere di fronte una platea di imbecilli. Per questo, confidiamo che la nuova gestione dell’Invalsi esca da quella prassi, che era un incrocio di arroganza e di incompetenza.



E.A: Sull'Invalsi lei ha assunto delle posizioni di critica interna soprattutto rispetto ad alcune ingenuità messe in atto dai valutatori Invalsi, come quella di utilizzare il test Invalsi di terza media nella valutazione, o sull'uso della terminologia paraclinica presente in alcune espressioni come “somministrare i test”. Ha poi ammonito gli insegnanti sui rischi insiti nella tendenza didattica del teaching to the test ingenerata dal ricorso sempre più invasivo dei test nella valutazione degli apprendimenti. Di fronte a queste tre critiche circostanziate quali rimedi individua sul piano pratico e dell'impostazione culturale?
G. I: La risposta è semplice e si trova nella definizione della funzione istituzionale dell’Invalsi. Se l’Invalsi è l’ente di valutazione del “sistema” dell’istruzione secondaria, preposto a dare un’immagine dello stato dell’istruzione scolastica italiana, mediante tutti i metodi di analisi che si vorrà dare – e che beninteso sono soggetti essi stessi ad ogni valutazione critica – tutte le obiezioni precedenti spariscono; a parte quella linguistica che è soprattutto una questione di stile che però denota un’idea passiva del soggetto ricevente, come il malato cui viene “somministrata” un’infusione chemioterapica. L’opera dell’Invalsi dovrebbe servire a fornire elementi di valutazione da parte dei soggetti coinvolti e di decisione da parte della politica nonché orientare le scuole nelle funzioni di organizzazione della didattica loro riservate dall’autonomia. Questo dovrebbe essere il ruolo istituzionale dell’Invalsi, che però ha tentato di debordare, come ha fatto l’Anvur per l’università, la quale agenzia doveva valutare ex-post il sistema e invece è diventato un controllore del medesimo in un modo talmente autoritario ed ex-ante da suscitare le reazioni impotenti persino dei due ultimi ministri dell’Istruzione. Se l’Invalsi pretende di fare di più, e cioè di valutare direttamente gli studenti, allora è un’altra faccenda. L’esame di terza media comprende un test Invalsi di italiano e matematica che fa media nella valutazione finale e quindi non è un mero strumento di analisi dello stato degli apprendimenti a quel livello, ma di “giudizio”: la valutazione degli apprendimenti viene misurata con i criteri dell’Invalsi – del tutto discutibili in quanto basati su test discutibili nel merito e nel metodo – e su questa base si pretende di dare anche un’immagine dello stato del sistema. Sarebbe come se un chimico agitasse una soluzione di cui deve determinare la composizione mediante una bacchetta non di vetro neutro ma di una sostanza che reagisce con la soluzione. È un errore da matita blu. Ma l’errore è voluto perché è determinato dall’intenzione: iniziare a sostituirsi all’insegnante nella valutazione e trasformarlo progressivamente in esecutore dei precetti di un ente esterno centralizzato e fuori controllo. Non a caso da più parti si parla addirittura di abolire l’esame di maturità – già opportunamente depotenziato mediante l’appiattimento delle valutazioni verso l’alto – sostituendolo con un test Invalsi. Inutile dire che, di fronte a un test che fa media nel voto, l’insegnante si sente costretto – anche dalla pressione delle famiglie – a preparare gli studenti a superare i test, e quindi a favorire lo scandaloso “teaching to test” che di fatto significa l’introduzione di una nuova materia – la “testologia” – che sottrae spazio a quelle ordinarie, nell’intenzione inqualificabile di distruggere la struttura disciplinare dell’insegnamento sostituendo le materie con la preparazione a generiche “abilità”. I disastri del “teaching to the test” sono ampiamente documentati dalle esperienze estere. A questi si aggiungono i tipici fenomeni corruttivi all’italiana favoriti dal centralismo incontrollato: preparatori di test che prendono quattrini per farlo e poi pubblicano opuscoli in cui s’insegna a come superare i test, il che è quanto dire un vergognoso conflitto di interessi.


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