Il
merito riconosciuto da (quasi) tutti al non sintetico documento “La Buona
Scuola” è quello di aver (ri)messo la scuola italiana al centro dell’attenzione
e di un generale e condiviso dibattito.
Qualcuno
ha deplorato l’impiego dell’aggettivo “buona”, come se si volesse intendere che
tale la nostra scuola non è (non lo è più ora?; lo è stata in passato?);
qualcun altro lo ha inteso semplicemente non come critica al presente, ma come
auspicio per il futuro. Sia come sia, lapidaria definizione o profetica proposta, credo non si possa fare a meno di riflettere prioritariamente su cosa è davvero oggi la nostra scuola.
Essa è certamente, a parere di chi scrive, “smarrita”: e tale smarrimento si è accentuato vistosamente da sei anni a questa parte. Rintracciamo velocemente le componenti di ciò, prima di passare a proposte che possano essere realmente costruttive.
Siamo passati con incredibile rapidità e senza alcuna preventiva progettazione da mini a maxi istituti, da mini a maxi classi: con le stesse strutture, le stesse risorse, la stessa organizzazione di prima.
Anzi, con meno di tutto! Non a costo zero, ma sottozero: la scuola è stata considerata (solo da noi!) una spesa infruttuosa, che si doveva (si deve ancora? a leggere il testo della Legge di Stabilità, sembrerebbe di sì) ridurre drasticamente, senza badare alla sensatezza di avere istituti sovradimensionati rispetto al territorio che li ospita, accorpando e verticalizzando.
Il docente, poi, dalla scuola dell’infanzia all’Università, ha con altrettanta rapidità alterato la sua identità: oggi prevalgono le sue mansioni impiegatizie, scrive sempre, verbalizza tutto, stila programmi, progetti, richieste. Il più “bravo” è, agli occhi di non pochi dirigenti, quello che produce tante carte.
La sua prassi didattica si è modificata sulla spinta di “mode” e di imposizioni dall’alto: in un battito di ciglia si è passati dalla valutazione formativa ed incoraggiante a quella parcellizzata e sommativa; si sono introdotti strumenti e modalità fino ad ieri estranei, test e quiz, con l’assurda pretesa della massima oggettività, contro la quale non smette di scagliarsi con ottime ragioni Giorgio Israel (uno scienziato, non un umanista!).
E si potrebbe continuare, chiedendosi anche se basta il ricorso a LIM e a tablet per innovare davvero nel profondo la didattica, se l’entusiasmo acritico per nuovi strumenti non finisca per trasformarli in fini, che di educativo hanno davvero poco.
Il preside non si chiama neppure più così, anche se “La Buona Scuola” restaura in più punti tale termine: ma cosa c’è davvero dietro l’altisonante etichetta di “Dirigente Scolastico”? Un manager o piuttosto un capoufficio, che si relaziona sempre meno coi suoi colleghi docenti (anch’egli, almeno finora, proviene da quelle fila!) e che è sempre più angustiato dai problemi della sicurezza, della privacy, della trasparenza, ecc… e sempre meno autorevole leader educativo; responsabile solo formalmente dei risultati conseguiti e in rapporto problematico col DSGA; sorta di nomade errante tra un plesso e l’altro, dotato dell’ubiquità tutta italica di chi provvede a volte a più di una reggenza (altra prassi funesta, che sarà bene eliminare una volta per tutte!).
Lo studente, nemmeno lui lo si chiama più così: è diventato prima cliente, poi utente. Sino a ieri non era un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere, per dirla con la suggestiva frase di Plutarco. Oggi quel fuoco ci guardiamo bene da accenderlo, lo preferiamo ben spento, a forza di “somministrargli” (termine orrendo!) prove che non mettono più in gioco la sua “intelligenza” (nel senso etimologico del termine) e la sua creatività, ma la sua passiva esecutività, celebrando il trionfale ritorno del nozionismo sotto altre vesti.
Le famiglie, infine: da collaboratrici ad antagoniste, spesso. I decreti delegati sono vecchi di una quarantina d’anni, pensati per coinvolgere i genitori in un altro contesto sociale: siamo in incredibile ritardo, dovremmo porre velocemente rimedio a ciò.
E qui si arriva naturalmente ad un'altra, grave serie di problemi: quella degli anacronismi che condizionano assurdamente la vita della scuola italiana. Anacronismi giuridici e normativi, come la famosa culpa in vigilando (ex art. 2048 c.c.: varrebbe la pena di leggere quella prosa straordinaria, che parla di “tutori”, “affilianti” e “precettori”), vera mannaia sospesa sulla testa di docenti e dirigenti, che hanno l’incubo di lasciare una classe “scoperta” anche soltanto per qualche minuto e anche se si tratta di baldi sedicenni e non di pargoletti indifesi: in quale altro Paese europeo accade qualcosa di simile?
Anacronismi, ancora, come il T.U. D.Lgs. 279/94, di vent’anni fa, quando ancora non c’erano POF, CLIL, BES ed altri acronimi a farla da padroni! Anacronismi, infine, come le prove d’Esame di Stato assolutamente centralizzate, con le soluzioni che compaiono on line venti minuti dopo la loro comunicazione e con l’ottocentesco rituale del plico sigillato con la ceralacca! Il persistere di tutte queste forme giurassiche rende quasi impossibile un serio confronto con le scuole degli altri Paesi europei: prima capiremo questo, meglio ragioneremo su questo aspetto.
Altrove l’aula è del docente, quasi un suo ufficio, sono gli alunni a spostarsi, da un’ora all’altra, senza alcun bisogno di “badanti”.
Altrove, termini come “ricorso”, “verbale”, “circolare” non hanno diritto di cittadinanza nella scuola: ci si fida di più degli insegnanti, essi godono di un prestigio sociale (e di una remunerazione economica, va da sé!) ben diverso e certamente maggiore. La legislazione scolastica altrove è ridotta al minimo, non si pretende di normare tutto nei minimi dettagli, si lascia più spazio alla responsabile discrezionalità degli operatori scolastici.
Non parliamo proprio, poi, delle strutture messe a disposizione: ciò che affascina maggiormente i nostri ragazzi che frequentano un anno all’estero o fanno gli school-links è proprio questo, la funzionalità e la modernità degli spazi, dei laboratori, delle palestre, delle mense, delle biblioteche, ecc…
E, invece, per quanto riguarda lo studio è quasi un coro unanime: “Prof., studiamo molto di più e molto meglio noi!”.
Eppure, nelle ultime indagini (vd. La Stampa 14.11.2014) siamo i peggiori d’Europa. Forse anche perché destiniamo solo il 4% del PIL all’istruzione, rispetto ad una media europea del 5,3%? Forse perché è più di tutti il sistema universitario a non funzionare, con il 22,4% dei laureati di fronte alla media europea del 38%? Curiosamente, però, l’Università non è mai sul banco degli imputati, non si mette mai bene a fuoco l’incredibile dispersione che avviene dopo la secondaria superiore e gli ingiustificati ritardi (i fuoricorso di antica memoria) per pervenire alla laurea: non sarebbe il caso di chiedersi se non sia urgente “colmare” lo scollamento tra Scuola e Università, pretendere che anche questo mondo, ben più autoreferenziale di quello della scuola, ripensi radicalmente alla propria didattica, smettendola di considerarla di rango assolutamente inferiore rispetto alla nobiltà della pura ricerca?
Torniamo alla scuola. Che si può fare di concreto e di immediato per curare questo smarrimento di identità? Anzitutto, rispondere alla domanda delle domande: che cos’è la scuola?
La scuola di oggi, certo, ma oserei dire la scuola di sempre, la scuola che continua ad esistere anche al tempo di Internet e Wikipedia.
Finora è stata data una risposta clamorosamente sbagliata, che ha procurato molti danni, si spera non irreversibili: la scuola come azienda.
Ciò ha significato introdurre acriticamente, quasi violentemente, termini, criteri, regole e prassi assolutamente estranei, quando non antitetici, ad un contesto educativo: basti pensare solo al binomio “competitività e concorrenzialità”, di contro a “collaborazione e compartecipazione”, i valori che una scuola degna di questo nome deve sempre avere come stella polare. Snaturando così ciò che è per sua natura assolutamente “gratuito”: la conoscenza, la crescita culturale, la formazione del carattere e della personalità. Che avvengono a scuola, anche e soprattutto: nella scuola che è la prima vera comunità extrafamigliare nella quale ci si ritrova.
Oltre ad essere assurda, l’operazione di configurare la scuola come azienda è stata anche velleitaria (come, en passant, tante, troppe riforme recenti: e a proposito, a quando una riflessione articolata sui benefici, pochi, e sui danni, molti, che la “riforma Gelmini” ha prodotto?): una scuola che non ha (o ha risibili) risorse, la cui autonomia è in fondo abortita proprio per questo, che credibilità come azienda potrà mai avere?
Difatti, oggi, la scuola è – come si è già osservato – piuttosto un ufficio, una propaggine della P.A. senza quasi alcuna specificità: è questo che determina l’avvilimento, la mortificazione professionale di una gran parte di docenti, che stanno progressivamente perdendo quell’entusiasmo che ancora permette di infondere un po’ di credibilità e di valore alle lezioni in aula e a tutta l’attività didattica.
E’ qui allora che è urgente intervenire.
Stabilendo, anzitutto, che la scuola è, deve essere, uno spazio, un luogo di libertà di pensiero e di cultura, di interazione reciproca del processo di insegnamento-apprendimento: un luogo in cui si formano e si sviluppano l’apertura verso gli altri e la curiosità intellettuale, a tutti i livelli, dall’infanzia all’educazione degli adulti.
Un luogo aperto e in relazione dinamica col territorio, in grado di offrire e di ricevere stimoli, suggestioni, apporti: dal mondo del lavoro e delle professioni, dall’Università, dagli Enti locali, dalle Associazioni Culturali, ecc…
Un luogo in cui operano professionisti della cultura e dell’insegnamento che devono essere ben formati e costantemente aggiornati: è qui che si gioca una partita importante, finora incredibilmente trascurata.
Come si diventa insegnanti in Italia? Sembra che questo problema non abbia mai avuto una seria risposta in tutta l’intera storia della Repubblica italiana. Bisognerà decidersi una buona volta a smetterla coi pasticci ingovernabili del TFA e dei PAS e recuperare il meglio della decennale esperienza delle SSIS, eliminate con incredibile rapidità e totale incoscienza: l’unica volta che mondo accademico e mondo della scuola avevano iniziato a comunicare, a contagiarsi reciprocamente e beneficamente con le loro pratiche, a realizzare una sinergia che andava certamente riformata e migliorata, ma assolutamente non stroncata.
Dalla delineazione di un chiaro percorso per accedere all’abilitazione alla necessità di superare concorsi – cadenzati con regolarità e condotti con assoluta trasparenza, senza dare adito a quelle impressionanti sequele di ricorsi possibili solo da noi – , alla determinazione di una carriera docente: che si potrebbe realizzare sin da subito, identificando profili precisi e precise competenze, analizzando i curricula di chi è già da tempo nella scuola e ha al suo attivo collaborazioni scientifiche e didattiche con Facoltà universitarie, Enti di ricerca, ecc… oppure collabora a diverso titolo col DS oppure svolge funzioni importanti per la vita del singolo Istituto.
Non è difficile immaginare qualcosa di sensato e di articolato, se solo se ne ha la volontà. Ed è l’unico modo credibile per rendere appetibile per le nuove generazioni la professione docente – oggi così screditata – e per creare nuove posti di lavoro, facendo sì che docenti seniores formino i neo immessi in ruolo. Senza, però, passare dall’estremo (assurdo) di una carriera solo per anzianità a quello (altrettanto assurdo) di una carriera in cui il conseguimento di una maggiore esperienza professionale non ha più alcun valore!
Da questa impostazione discende abbastanza naturalmente quella degli altri problemi: a condurre le scuole (ormai dimensionate sui 900 e più alunni) non un uomo o una donna soli al comando, ma uno staff, un gruppo, una gestione collegiale, anche lì con oggettive possibilità di carriera; a valutare la scuola – e perché no?, anche il lavoro del singolo docente – non un unico giudice, ma un gruppo di lavoro, ridando senso ed importanza a quel ruolo ispettivo che da noi è quasi un’astrazione metafisica (e che altrove, invece, funziona benissimo, vd. Ofsted nell’UK).
Bisogna infine realizzarla davvero, questa benedetta autonomia!
Abbiamo perduto una quindicina d’anni, riconosciamolo!
Non ci potrà mai essere, se non si ripenserà anche al ruolo del MIUR, che dovrà essere meno impositivo e direttivo.
Non ci potrà mai essere, se il preside sarà avvertito non come espressione della sua scuola ma come controparte rispetto ai docenti: si dovrebbe prestare anche attenzione alla proposta della sua eleggibilità o, almeno, a diverse forme di reclutamento rispetto a procedure concorsuali che non danno il giusto peso alle capacità relazionali ma continuano a privilegiare gli aspetti buro-tecnocratici del ruolo; se FIS e MOF, altri deliziosi acronimi, avranno consistenze ridicole; se la prassi burocratica non sarà davvero ridotta al minimo, eliminando radicalmente quella perversa smania di scrivere anche le minuzie (si veda l’abnorme quantità di verbali che ciascuna Commissione degli Esami di Stato deve produrre e le decine, le centinaia di firme che devono essere apposte).
Ci è stato detto, giustamente, che la società tra dieci-vent’anni sarà come la stanno costruendo i docenti di oggi.
Aiutiamoli davvero a farlo, restituendo a loro – e all’intera società – il senso dell’importanza di tale “missione” e cercando soprattutto di essere coerenti tra quanto si proclama e quanto si realizza.
Quando smetteremo di parlare di “spesa per l’istruzione” e parleremo di “investimento”, allora sì che “cambieremo davvero verso”.
Stefano Casarino