di Giovanna Lo Presti – 1 dicembre 2014
Che “Buona scuola“! Senza bidelli e senza didattica!
In quel mirabile documento che è “La buona scuola”, fatto di fumo per il novanta per cento e di aculei velenosi per il dieci per cento, vi sono, oltre ai peccati in parole ed opere, anche alcuni peccati di omissione.
Dove stanno i bidelli, nella “buona scuola” renziana, per esempio? Certo, nel mondo di fantasia del premier le scuole si aprono, si chiudono, si puliscono da sole; allo stesso modo è del tutto inutile cercare informazioni sul numero massimo di studenti per classe (uno dei dati oggettivi fondamentali, in una buona scuola: quando si parte con trenta o più studenti, in una prima di un istituto tecnico o professionale, è già assicurato il mancato recupero dei più fragili).
Se poi, presi da uno spirito da antichista, volessimo cercare nel testo le parole “bocciatura” – anche nella sua lectio edulcorata e moderna di “ripetenza” – o “promozione” vedremmo che anch’esse non esistono. Lo slogan di Renzi, “il futuro è solo l’inizio” è il miglior commento alla “Buona scuola”: quello cui il premier e la sua squadra badano è il propinare una sfilza di parole eufoniche, attraversate dall’elettricità dell’ottimismo (e quante volte, in questi anni, abbiamo rimpianto l’assenza dal nostro palcoscenico politico di ogni pessimismo della ragione!) ma che non significano nulla.
Nella soffice nuvola della “Buona scuola”, la cui veste grafica (costruita dalla designer Lucia Catellani, titolare dell’agenzia “Bread and Jam” – un nome, un programma), immagino debba servire a rendere gradevole il “prodotto” a palati di facile contentatura, il lettore dotato di un minimo di capacità critica non troverà niente di nuovo. Di concreto ci sono soltanto i prospettati tagli degli scatti di anzianità, che tali restano, pur presentati con “colorini” e “disegnini” insopportabilmente (parlo per me) babyish, che scrivo in inglese per darmi delle arie anch’io; infatti, uno dei principali insegnamenti che ho tratto dalla lettura della “buona scuola” è che, se si parla di genitori che tutti i mesi debbono sganciare soldi alla scuola, vuoi per le fotocopie, vuoi per i colori a dito, vuoi per la carta igienica, molti si indignano; ma se questa deprecabile pratica viene presentata come “crowdfounding” sembra subito qualcosa di “moderno” e avanzato.
Resta il degrado cognitivo e valutativo: a che serve studiare?
Andiamo al tema della eliminazione delle bocciature, presentato nel testo di Vincenzo Pascuzzi, un signore che di scuola si intende e che certo non parla a vanvera come i nostri politici. Pascuzzi individua ed analizza due tipi di degrado, quello cognitivo (si riesce ad insegnare e ad apprendere sempre di meno) e quello valutativo, che ne è la conseguenza.
Le cause individuate da Pascuzzi per spiegare lo scivolamento verso il basso dei livelli di apprendimento sfiorano il tema che, a mio parere, è cruciale: vale a dire l’assetto sociale in cui la scuola si colloca.
Ho insegnato per due decenni in un istituto tecnico ed ho potuto constatare, nel passaggio dalla metà degli anni Ottanta ai primi anni del 2000, quanto crescesse, anno dopo anno, la disaffezione degli studenti nei confronti della scuola. Pur essendo molteplici le cause di tale fenomeno, ne voglio qui individuare soltanto una, forse la principale: mentre la crisi socio-economica avanzava, gli studenti percepivano la mancanza di senso del loro stare a scuola, capivano che un diploma non avrebbe assicurato loro migliori possibilità lavorative. Ed aggiungo anche che vedevano i loro insegnanti sempre più malridotti, sempre più in affanno; e gli allievi ponevano con forza un interrogativo: “A che serve studiare?”.
A questa semplice e fondamentale domanda ho cercato di rispondere costantemente e senza troppe derive retoriche: ma non è facile convincere adolescenti che subiscono la forte pressione di un mondo iper-consumistico che studiando Leopardi la loro vita migliorerà. Eppure quella è, attualmente, l’unica via da percorrere, per noi insegnanti. Insistere, insistere, insistere sul fatto che lo studio ha un insostituibile valore emancipatorio, che la prima servitù da cui ci si deve liberare è quella dell’ignoranza. E bisogna dimostrare ai nostri bambini, ai nostri ragazzi che il luogo proprio del cammino liberatorio dell’apprendimento è la scuola pubblica, la scuola di tutti.
Il delirio valutatorio segno della fine della scuola
Questa doppia premessa serve a chiarire almeno un poco la mia personale diffidenza verso la valutazione degli studenti assunta come problema a se stante. Il delirio valutatorio che ha accompagnato l’ultimo quarto di secolo mi sembra il segno certo della fine della scuola come io l’intendo, cioè come un luogo in cui si pongono le premesse per una società di eguali.
Spostare il baricentro dal problema dell’insegnare al problema del valutare è una sorta di riflesso condizionato cheserve a rafforzare il ruolo dell’insegnante, proprio in un momento in cui tale ruolo viene messo costantemente in forse (dagli studenti, dalle famiglie, dall’opinione pubblica). È l’effetto di tale riflesso condizionato che ho visto palesarsi tante volte, soprattutto durante gli scrutini: è nel dare una sufficienza o una insufficienza che sembra raggrumarsi la serietà (o la non serietà) dell’opera dell’insegnante. Questo è molto triste: è il segno che si demanda al voto la difesa della propria identità professionale, è il segno che gli insegnanti hanno adottato la logica piccina del “valutatore” contro la logica magnanima che dovrebbe guidare qualsiasi maestro.
Insomma, voglio dire che, finalmente, gli insegnanti dovrebbero abituarsi a pensare fuori dagli schemi consolidati. La ripetenza, la promozione, il voto o il giudizio etc. sono tasselli di un disegno consunto. Oggi la nostra dissanguata scuola italiana dovrebbe divenire il luogo in cui si contrasta con forza, giorno dopo giorno, la disumanizzazione della nostra società, in cui si sostituiscono ai falsi valori dell’efficientismo, della “modernità”, della rincorsa – sempre destinata ad essere perdente – dell’innovazione tecnologica i veri valori della solidarietà tra generazioni, che, a scuola, passano attraverso la trasmissione del sapere e la formazione di una capacità critica.
Gli insegnanti dovrebbero più spesso tener presente quanto affermava Aldo Capitini:
“…in una scuola diversa dall’attuale, l’insegnante deve stare come se partisse da zero; la scuola è dialogo, e l’insegnante vi guadagna la sua autorità non perché egli è insegnante, ma mostrandola continuamentenella capacità che egli ha di suggerire, di risolvere situazioni, cioè di aiutare la comunità scolastica”. (1)
La critica o è radicale o non è
Non c’è via di mezzo per opporsi allo scivolamento verso una scuola sempre più burocratizzata e priva di vitalità: la critica verso il modello scolastico che si è affermato negli ultimi due decenni deve essere radicale o altrimenti non ha ragione d’esistere. Quella scuola velleitaria e lontana dalla realtà di cui ci parlano i documenti ministeriali (ultimo, appunto, “La buona scuola”) può essere proposta anche perché gli insegnanti non hanno il coraggio di contestarla e di rivelarne l’inconsistenza. Soltanto per parlare delle ultime sciocchezze governative, quale persona di buon senso potrebbe collaborare al CLIL o ai BES? (potenza delle sigle, che nascondono sotto la loro apparenza un po’ esoterica ed asettica il frutto dell’umana stupidità).
Proprio a partire da questo punto di vista – e cioè della necessità di non collaborare per mandare avanti il malfermo colosso scolastico italiano – considero con scetticismo ogni intervento su bocciature o promozioni.
In fondo anche una proposta ragionevole ed articolata come quella di Vincenzo Pascuzzi si muoverebbe sempre sullo stesso solco e non farebbe che scaricare sugli insegnanti una ulteriore responsabilità parziale (quella del recupero senza bocciatura) per esercitare la quale mancano i mezzi materiali: dove sono infatti i fondi per pagare gli insegnanti che si occupano del recupero? Come si potrebbe attuare tale recupero in una struttura oraria rigida? In quali locali e con quali modalità dovrebbe avvenire il recupero stesso?
Certo, ad ognuna di queste domande i singoli istituti potrebbero mettere una pezza, proporre l’ennesimo aggiustamento. Ma la pratica del “rappezzo” è quella che, se da un lato ha consentito alla scuola italiana di procedere, dall’altro ha impedito che le contraddizioni venissero messe a fuoco da una parte consistente dei docenti; diciamolo pure, nella maggioranza delle scuole italiane si tira a campare con fatica sempre maggiore, a causa di molti fattori.
Ad un lavoro che è diventato sempre più complesso, a causa dell’oggettivo mutamento sociale, lo Stato ha risposto con la politica della riduzione della spesa per l’istruzione,accompagnandola con la trita retorica dell’importanza della scuola. La versione di Renzi aggiunge un po’ di ipocrita entusiasmo alla salsa scipita con cui si condisce il piatto avariato in cui confluiscono i tagli alla scuola.
Riprendiamoci davvero il nostro lavoro
Perciò, più che occuparci di praticare una didattica “migliorista”, riprendiamoci davvero il nostro lavoro, che non è incentrato sui voti o sui giudizi. Non è un caso che la scuola sia così dissestata: in una società sempre più diseguale una “buona scuola” non serve e questo lo sanno benissimo coloro che ci governano (sarebbe meglio dire coloro che ci comandano).
La trasformazione della scuola in un conflittuale recinto di contenimento delle giovani generazioni è un processo in atto da tempo; sottraiamoci alla greve responsabilità di esserne complici e giochiamo la carta decisiva, quella della scuola come luogo di crescita e di apertura culturale. E soprattutto ponderiamo il fatto che i due modelli di scuola non sono compatibili.
Certo, può sembrare avventato buttare alle ortiche le discussioni sull’opportunità delle ripetenze, su quanto il giudizio sia migliore del voto, sulla necessità dei recuperi etc. Ma è anche a causa di queste discussioni che ci si è distratti dal cuore del problema; è anche perché impegnati a correr dietro alle trovate ministeriali (o a mettere a punto trovate proprie per contrastare le trovate ministeriali) che gli insegnanti non sono stati in grado di arginare lo scivolamento verso una scuola sempre più di classe, in cui i figli delle persone benestanti vanno al liceo, mentre agli altri toccano, se va bene, i tecnici e i professionali. E gli insegnanti non hanno difeso nemmeno il loro stesso lavoro: sei anni di blocco del contratto ed un’età media altissima sono le due spie più significative del dissesto della professione docente.
Una proposta che viene da lontano
Chiudo comunque con una proposta, preceduta da un memento: nella scuola si riflette un modello di società ed ognuno di noi si deve chiedere se vuole operare per l’affermarsi di una società più ingiusta (nel qual caso continui pure a fare come ha sempre fatto, ritenga illusoria la possibilità di un cambiamento, continui a dar voti e si lamenti in sala insegnanti del fatto che gli studenti non studino) o se vuole lavorare per una società migliore. La mia proposta si riassume in una citazione:
“Infine […] dobbiamo anche far sentire, se vogliamo che veramente la scuola sia di tutti, questa sete di liberazione, di trasformazione della realtà attuale, in una realtà che veramente sia di tutti, che non lasci fuori nessuno e quindi l’educazione può anche essere veramente un atto verso una realtà liberata dai limiti di questa realtà. Una realtà liberata che ha come suoi antesignani proprio i fanciulli. E con apertura a loro, noi dobbiamo dare i valori che possiamo, ma dovremmo avere l’umiltà di pensare che loro siano capaci di fare sintesi migliori di noi. Essi saranno qualche cosa in più di noi. Questa è, secondo me, la vera educazione” (2).
Note
1) Aldo Capitini, La religione dell’educazione, edizioni La Meridiana, Molfetta 2008, p. 135.
2) Aldo Capitini, op. cit., p. 138.