Il
Convegno Il Liceo Classico del futuro.
L’innovazione per l’identità del curricolo, svoltosi al Politecnico di
Milano il 28 e 29 aprile scorsi ha avuto vasta eco: tra i molti interventi sul
tema, validi spunti di riflessione li offre l’articolo di Antonietta Porro, Greco e latino, superiamo l’opposizione tra
grammatica e civiltà (Il Sussidiario.net, 13.06.2016).
Più
che il parere di autorevolissimi docenti universitari, mi pare si debba sentire
la voce (e tenere nel debito conto l’esperienza) di chi da anni affronta ogni
giorno in classe i problemi dell’insegnamento delle lingue classiche, con
alunni sempre diversi e - vale la pena rimarcarlo - sempre meno attrezzati per
ciò che concerne le competenze logico-linguistiche.
E
questo sarebbe il primo punto da affrontare, la premessa indispensabile per
qualunque serio ragionamento sull’intera scuola secondaria di secondo grado:
che ruolo hanno oggi nell’attuale scuola secondaria di primo grado (la vecchia
“scuola media”, per intenderci) l’insegnamento della grammatica e della
sintassi dell’italiano e la composizione scritta nella nostra lingua madre?
Chi
scrive ha avuto modo di verificare coi propri figli: in tre anni di medie (per
altro ottime e con validissimi insegnanti) il numero globale di “temi” ha
raggiunto (forse) la dozzina; di riassunti manco a parlarne; di altri esercizi
alternativi neppure l’ombra: questionari, invece, quelli tanti; e test a
crocette, perché così si fa altrove.
Altro
che troppi compiti a casa e a scuola: scrivere, far scrivere è diventato
obsoleto (anche perché poi correggere costa tanto tempo e tanta fatica!).
L’attenzione
alla “lingua”, all’errore ortografico è quasi del tutto sparita (e mi scuso in
anticipo coi molti valorosi colleghi che invece ancora su ciò insistono): tanto oggi nessuno scrive più con la
penna, si scrive col PC e c’è il correttore ortografico (così mi replicò
qualche anno fa un’aggiornatissima collega).
Se
poco e male si hanno nozioni di analisi grammaticale e logica, affrontare le
lingue flessive è un salto non da poco.
Qui
una cosa va detta subito con chiarezza: non è più sensatamente possibile
impostare lo studio del latino e del greco con le categorie grammaticali di
tantucciana memoriana per l’uno e di lamanniana-nucciottiana memoria per
l’altro. Prima era possibile esaurire lo studio della grammatica al biennio (il
vecchio ginnasio), oggi sarebbe follia solo pensarlo.
Ad
una maggiore distensione dell’apprendimento della lingua si dovrebbe però
accompagnare, a parer mio, un incontro più immediato con la cultura: prima si
doveva attendere il triennio per respirare l’aria più vivificante della
letteratura e per parlare di grandi temi culturali, oggi bisogna assolutamente
ripensare e ristrutturare radicalmente questa tempistica.
Il
problema dei problemi, però, ancora una volta non è cosa fare e a quali mezzi
ricorrere (la proposta delle versioni contrastive, oppure, entrando nel merito
dei problemi, essenzializzare e ridurre, come propone Serianni, da cinque a tre
le declinazioni latine), ma è la formazione di chi quelle materie vorrà (dovrà)
insegnarle, sempre che si ritenga ancora sensato farlo.
Notizia
di questi giorni: in Grecia il Ministero della Pubblica Istruzione – là si
chiama ancora così – intende eliminare l’insegnamento del greco antico nella
scuola media inferiore: ci stupiamo e magari qualcuno si scandalizza, ma noi col
latino nella nostra scuola media già l’abbiamo fatto, e da tempo!
Ha
ragione Porro a prendersela col grammaticismo,
che è cosa ben diversa dallo grammatica. E tra i tanti –ismi che ci rovinano voglio segnalare quello che a parer mio nella
scuola li contiene tutti: “didatticismo”.
Si
badi, non didattica: di quella, che è roba seria, non si parla mai, o si fa
finta di parlarne. La decennale esperienza delle SSIS, interrotta in uno dei
modi più brutali che la recente storia dell’istruzione italiana ricordi,
avrebbe potuto (dovuto) servire a ciò: ora è la volta dei TFA, dei PAS…
Possiamo
dire, in coscienza, che davvero ci si preoccupa in Italia di “formare i
formatori”? E, oltre alla (inesistente) formazione in ingresso per conseguire
la famosa abilitazione all’insegnamento, che dire poi di quella in itinere e
del diritto/dovere all’aggiornamento?
In
buona sostanza, mi piacerebbe che si convenisse su due punti, dai quali
necessariamente partire per qualunque discussione sensata:
1.
senza persone preparate e motivate, che
conoscano e siano in grado di far conoscere ciò che insegnano (utilizzando
certamente tutti i “mezzi” nuovi a loro disposizione, ma senza affidarsi
passivamente ad essi), qualunque didattica, non solo quella delle lingue
classiche, è destinata al fallimento. Se alla fine del Liceo, gli studenti
progettano il falò dei libri e degli appunti di latino e di greco e in futuro
fuggiranno da qualunque iscrizione in quelle lingue, il fallimento è pieno e
irrimediabile: anzitutto, di chi quelle materie le ha proposte e insegnate,
perché le ha mummificate, ha tolto loro ogni fascino e agli studenti ogni
voglia di apprenderle. in Inghilterra un’insegnante trentenne è stata
licenziata perché troppo noiosa: aldilà della risonanza e della semplificazione
mediatica, una riflessione in merito varrebbe la pena di farla!
Se invece, anche senza frequentare
Lettere Classiche all’Università, gli ex-liceali continueranno ad interessarsi
di letteratura, ad “incontrare” i classici (magari leggendo in integrale e in
buona traduzione italiana quei testi di cui la scuola ha offerto solo
“pillole”), ad andare a teatro, all’opera, ecc…, allora aver frequentato il
Classico avrà lasciato positivamente e durevolmente il segno.
2. Ma
– e qui è il caso di parlare forte e chiaro – non è in gioco la sopravvivenza
di un indirizzo come tanti, che in meno di dieci anni ha visto dimezzati i suoi
iscritti e che qualcuno magari si augura pure che si estingua perché del tutto
arcaico ed inutile: è in gioco anche e soprattutto una precisa idea di cultura,
di formazione culturale. Tramontato più o meno felicemente il tempo di
affermazioni quali “il Classico dà la forma mentis”; “il latino e il greco
aprono la mente” ; “il Classico forma la futura classe dirigente” ecc.., è ora
il momento di chiedersi e di chiedere ai nostri decisori politici se la scuola,
tutta quanta nel suo insieme, deve diventare un luogo in cui dispensare nozioni
verificabili con test che di culturale
non hanno proprio nulla (e allora tradurre non serve ad un accidente, ma
neppure discutere di Omero o di Virgilio) oppure se la scuola, tutta quanta nel
suo insieme (con un ovvio processo di gradualità),
continuerà (deve continuare) ad essere il luogo dello studio, della lettura e
dell’analisi dei testi, dell’incontro con la cultura in tutte le sue forme e
avere per fine la formazione del gusto e del senso critico, il fornire metodi e
strumenti perché ciascuno sia in grado di ragionare con la propria testa dopo aver
conosciuto la lezione del passato.
Questo, ovviamente, presuppone
che importi ancora parlare di individui, di persone, e non solo di competenze e
di prestazioni.
Ma forse, oltre alle
lingue classiche, anche questo modo di pensare è ormai un arcaismo di cui
possiamo benissimo fare a meno.