C’è un concetto che può sembrare
retorico a qualcuno (sia quelli arroccati in un’idea chiusa della cultura sia
quelli che non sanno proprio dove stia di casa la cultura).E’ una parola chiave:
cultura dell’innovazione. La considero come la definizione migliore per
trattare di ciò di cui ha bisogno un sistema-Paese come il nostro che non
riesce ad emanciparsi dal ristagno di modelli produttivi e sociali che sono
intimamente culturali, radicati nell’essenza antropologica e che allo stesso
devono proiettarsi in una tensione evolutiva. In questo Paese in troppi non
credono nell’innovazione o peggio ancora usano questo concetto come una foglia
di fico, trattandola in melasse generiche che ne inibiscono l’effetto. Sappiamo
che l’innovazione non riguarda solo l’avanzamento tecnologico ma la capacità di
esprimere valori d’uso, comportamenti creativi, format di comunicazione,
dinamiche di partecipazione e di auto-organizzazione sociale. Fenomeni diffusi
ma ignorati da alcuni che spesso, risiedono nelle sfere decisionali. L’Italia è
storicamente schizoide: divisa tra le spinte d’avanguardia (non dimenticate che
con il Futurismo si è dato il via a tutte le avanguardie storiche) e
l’arroccamento conservativo delle rendite di posizione. Così è stato per
l’innovazione digitale se pensiamo che l’Olivetti già nei primi anni Ottanta
era in grado di commercializzare un personal computer, prima della Apple.
Provate ad immaginarvi che spinta avrebbe dato, non solo all’industria italiana
ma a tutto un mondo culturale innervato di creatività diffusa, ispirata e
alternativa.